L’uomo moderno non ama, si rifugia nell’amore; non spera, si rifugia nella speranza; non crede, si rifugia in un dogma.
(Nicolás Gómez Dávila)

 

Le grandi storie sono come specchi: riflettono la realtà ma al tempo stesso la tradiscono.

Si appropriano di immagini reali per trasformarli in simboli, costruiscono trame sopra intrecci già esistenti, nascondono il loro significato dietro ai personaggi.

Sono le case che abitiamo, i pozzi dove andiamo a bagnare i nostri sogni ed incubi, le fantasie dove vanno a nascondersi le nostre coscienze. A chi non è mai successo di raccontarsi qualcosa per convincersi che quella finzione sia vera? Chi può negare di aver, almeno una volta, trovato maggior conforto al cinema piuttosto che sulla spalla di una persona cara? Quante volte ci siamo rifugiati nei nostri ricordi, magari addolcendoli, per non vedere quello che scorre davanti ai nostri occhi?

Le storie sono il modo in cui incaselliamo il caos che ci circonda; mondi fluttuanti costruiti per appagare il nostro complesso di Dio fragile. Nuvole, che circoscrivono l’orizzonte del desiderio.

Sono rifugi dove andiamo a ripararci quando piove. Ripari che costruiamo e distruggiamo continuamente, in un flusso senza fine di creazione e distruzione.

Si scava e si costruisce tantissimo in Shelter – Farewell to Eden, sia oggettivamente che figuratamente.

Diretto da Enrico Masi, in uscita in sale selezionate d’Italia questo mese e a Settembre, Shelter è il capitolo finale di una trilogia di documentari riguardanti l’impatto dei Mega Eventi e in generale ulla relazione tra fenomeni transnazionali e i mutamenti sociali delle grandi metropoli.

Dopo le Olimpiadi di Londra del 2012 (The Golden Temple) e le conseguenze di Olimpiadi e Mondiali in Brasile (Lepanto – Ultimo Cangaceiro) il focus si sposta sui processi migratori che irrompono sui confini europei. E’ all’interno di questo scenario che facciamo la conoscenza della protagonista di questo film.

Il suo nome è Pepsi: alias finzionale di una transgender filippina, ex combattente nella giungla del Mindanao, infermiera per dieci anni nella Libia di Gheddafi e ora migrante in una Odissea in giro per l’Europa. Tra l’Italia e Parigi, attraverso il passo della Morte che divide Ventimiglia con la Francia, Pepsi lotta per sopravvivere e per ottenere un’identità strappatale quando era bambina.

Nell’inquadratura che apre il film la vediamo scavalcare un tornello e parlarci delle sue differenti identità, che usa in viaggio e che raccoglie nel suo vissuto personale. Donna e uomo, infermiera e (ex) guerrigliera, Pepsi nasconde il suo volto perchè è un essere fluido e per natura che si adatta all’ambiente circostante. Non è un caso che l’acqua e il vento sono gli elementi a cui viene maggiormente accostata: il primo non ha forma se non quella dell’oggetto che la contiene; la seconda non è visibile se non grazie a un oggetto che ne subisce la forza.

Attorno a questo pedinamento, il film costruisce uno spazio visivo e sonoro che sottolinea o nasconde le parole del suo racconto di vita, edifica o demolisce il paesaggio fisico ed onirico teatro del suo viaggio. L’impianto cinematografico diventa un rifugio dove la testimonianza di Pepsi va a ripararsi: quando parla del viaggio su un barcone di migranti per approdare in Italia, un filmino di famiglia ci racconta di una piacevole traversata al tramonto di un traghetto; la storia di uno stupro subito per pagarsi il biglietto per andare in Inghilterra lascia spazio a una donna in bikini che si dona all’obbiettivo di uno smartphone mentre passeggia su una spiaggia; le onde che si infrangono violente contro gli scogli richiamando la triste fine dei migranti; la transumanza delle pecore ricalca i percorsi di chi cerca di superare il confine di Ventimiglia; una battaglia a palle di neve fa da metafora quando Pepsi rievoca la guerra in Libia…

Il lavoro sul montaggio in chiave metaforica (alla Godard o Ejzenstejin, per intenderci) la defframentazione totale dei formati all’interno del tessuto filmico (pellicola e ARRI, super8 e stills), la forza delle immagini (un plauso alla meravigliosa fotografia di Stefano Croci) e la scelta della protagonista di affrontare la pellicola a volto costantemente coperto, permettono  a Shelter – Farewell to Eden di ricostruire una vita nello spazio di 80 minuti e al tempo stesso di frammentarla in differenti identità.

Il concetto di narrazione si tramuta in una sciarada composta da testimonianza personale, spiritualità tribale, nuova lotta di classe, melò a tema LGBT, documentario su un’odissea post-coloniale, fiaba mitologica con riferimento al ratto di Europa da parte di Zeus…

Il film di Enrico Masi, realizzato dalla bolognese Caucaso e co-prodotto da Rai Cinema e Istituto Luce Cinecittà, è una sineddoche del mondo, complesso e plurisfacettato, di oggi.

Un tentativo, appagante e riuscito, di costruire e demolire, smantellare e ri-fabbricare un linguaggio per trasformare una persona in personaggio, un personaggio in una persona.

E’ l’obbiettivo delle grandi storie: riflettere la realtà ma al tempo stesso tradirla.

 

Stiven Zaka

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