Miei cari lettori di CineOn, buon 2019!

Inauguriamo il nuovo anno parlando di un film che ha fatto molto chiacchierare e che tanti di voi attendevano con ansia: Suspiria di Luca Guadagnino, remake dell’omonimo capolavoro di Dario Argento (sempre sia lodato!) del 1977, che esce in sala proprio il primo gennaio. Ebbene, da molto tempo ormai gli amanti dell’horror e non solo invocavano l’uscita della pellicola del regista palermitano, che dopo il recente Chiamami col tuo nome è ormai divenuto un nome di richiamo a livello internazionale. In effetti, con l’uscita del film posticipata varie volte, il successo alla Mostra del Cinema di Venezia e la pubblicazione del trailer e di alcune clip (che effettivamente promettevano molto bene) l’hype per il nuovo Suspiria è gradualmente aumentato.

Quando Guadagnino vide Suspiria per la prima volta, a suo dire, ne rimase stregato, tanto da decidere di mettere in pratica il suo amore per il cinema horror, riprenderne la vicenda e realizzarne la sua personale visione. A questo proposito sono d’accordo con il critico di Bad Taste Francesco Alò – cosa che avviene molto raramente – nell’affermare che l’unico modo per rifare Suspiria era non rifare Suspiria, ed è infatti proprio questo che vedrete: un film totalmente differente.

Siamo sempre nel 1977 ma non a Friburgo, bensì a Berlino, dove impazzano gli attentati terroristici dell’Autunno Tedesco da parte dell’estrema sinistra. Qui la rinomata Markos Tanz Company accoglie una nuova ballerina, Susie Bannion, proveniente da una famiglia mennonita dell’Ohio, il cui talento straordinario fa subito drizzare le antenne all’algida Madame Blanc, leader delle insegnanti. Chiaramente nell’edificio succedono cose strane e macabre che potrete facilmente immaginare, ma c’è da dire che allo spettatore non viene dato modo di sorprendersi degli avvenimenti, poiché il tutto viene rivelato nei primi due minuti di proiezione da Patricia, una delle ballerine. La ragazza si reca infatti dal dottor Josef Kemplerer, il suo psichiatra, in preda al delirio e confessa che le insegnanti farebbero parte di una congrega di streghe, in grado di impossessarsi del corpo delle danzatrici. La scomparsa di Patricia mette subito in allarme l’anziano Kemplerer che cercherà di indagare sulla compagnia. La figura dello psichiatra viene ideata appositamente per tirare le fila di una vicenda parallela a quella principale, nella quale l’uomo si crogiola nella sofferenza e nel ricordo della moglie Anke, scomparsa durante la fine della Seconda Guerra Mondiale.

Devo dire che conosco poco la filmografia di Guadagnino e non so dire se questa aura autoriale di cui ormai è stato circondato sia meritata o meno, ma vi dirò che se da una parte ho apprezzato alcune trovate, per quanto mi riguarda questo film non raggiunge la sufficienza. Premetto che per quanto ami Argento con tutta me stessa le mie considerazioni sono frutto di una visione assolutamente neutrale, a seguito di un lungo training autogeno in cui sono riuscita a convincermi che quello che stavo andando a vedere non era il remake del mio film preferito ma un horror qualunque e, come detto poche righe più sopra, non è stato difficile, in quanto – fortunatamente – della pellicola del ’77 è rimasto ben poco.

Inizierò col parlarvi di ciò che ho apprezzato.

Innanzitutto, devo dire che l’ambientazione berlinese funziona benissimo: il Muro è ancora eretto, gli edifici della città sono grigi e squadrati, il clima è freddo o piovoso e l’atmosfera è cupa e deprimente e mi ha ricordato la sensazione di malessere che ho provato con Possession di Andrzej Zulawski. La cupezza degli esterni è rafforzata dalla scenografia degli interni, composta da piccole stanze e corridoi lunghi e stretti, ambienti claustrofobici e scarsamente illuminati all’interno dei quali la fisionomia dei personaggi si intravede nella penombra e si ha continuamente la percezione che dall’oscurità possa sbucare fuori qualcosa. L’unico ambiente ampio e illuminato è la sala di danza della compagnia, dove la luce tuttavia resta grigiastra. Davvero molto suggestiva, inoltre, la sala Iris (una delle poche citazioni al film di Argento), circondata da specchi che distorcono la figura, ingresso per le stanze segrete della congrega. Ecco dunque il primo elemento di netto distacco dal film di partenza, dove a trionfare erano l’arredamento e l’architettura in stile Liberty e i colori intensissimi, realizzati dal direttore della fotografia Luciano Tovoli.

In secondo luogo non si può non parlare della colonna sonora di Thom Yorke, che da un lato si abbina perfettamente all’atmosfera tetra e malinconica del film, specialmente con composizioni al pianoforte, e dall’altro regala dei pezzi cadenzati, ridondanti, ipnotici e “acidi”; anche in questo caso siamo distanti anni luce dai carillon e dalle nenie terrificanti dei Goblin. D’altra parte l’aspetto sonoro, curato nei minimi dettagli, alimenta la sensazione di disagio con rumori e sospiri di sottofondo, come se le pareti respirassero.

Infine, ho trovato interessante che la distanza formale tra allievi e insegnanti dell’istituzione accademica sia stata sostituita da un clima di sorellanza tipico di una compagnia di danza contemporanea, così come il feeling istantaneo che si crea tra Madame Blanc e Susie, il tutto in linea con lo spirito dei Seventies. La danza, che nel film di Argento era un semplice pretesto, assume qui un’importanza primaria, perché attraverso essa il corpo diventa uno strumento di morte, da sfruttare o distorcere a piacimento, e le danzatrici diventano protagoniste di un macabro rituale sabbatico, come vuole la tradizione folkloristica della stregoneria.

E ora veniamo ai contro.

Tanto per cominciare non ho apprezzato per nulla Dakota Johnson nei panni della protagonista, che è inconsistente, scialba e inespressiva. Per quanto riguarda il resto del cast, mi è sembrato che nessuna delle attrici principali abbia avuto un ruolo degno di questo nome. Persino Tilda Swinton non sembra dare una forma concreta alla sua Madame Blanc, sebbene, al contrario, sia apprezzabile la sua trasformazione nei panni del dottor Kemplerer, interpretato in perfetto tedesco. Anche Patricia/Chlöe Moretz, che potrebbe sembrare un personaggio cruciale, si perde nel nulla. Insomma, stiamo parlando di bravissime attrici (non tutte) che evidentemente non sono state dirette in maniera decisa e di personaggi che hanno sofferto di una costruzione vaga e confusa in sede di sceneggiatura: ad esempio, come diavolo avrebbe fatto Susie, membro di una famiglia di integralisti religiosi, a imparare a ballare o addirittura a memorizzare la coreografia di uno spettacolo? Perché dovrebbe unirsi a Sara (la bravissima Mia Goth) per indagare sulle insegnanti quando è appena entrata nella compagnia? La stessa Sara si contraddice continuamente, poiché inizialmente afferma di adorare Madame Blanc e di trovarsi bene nella compagnia, per poi divenire improvvisamente sospettosa e cercare indizi sulla scomparsa di Patricia e sulla vera natura delle docenti. Infine, il cameo di Jessica Harper non giustifica la fugace apparizione del fantasma di Anke, veicolo di una sottotrama che non ha davvero nulla a che fare con la principale.

Per quanto riguarda la vicenda in sé, non posso non mostrare il mio disappunto per una durata interminabile (152 minuti). A pagarne le conseguenze è il rituale finale, dove la Mater Suspiriorum si impossessa finalmente del corpo della prescelta Susie e compie una mattanza; un momento di massima tensione – costruito in maniera eccellente – che viene spezzato da un epilogo noiosissimo ma purtroppo obbligatorio per la succitata sottotrama. A ciò si aggiunge il fatto che alcune scene, che dovrebbero comunicare terrore, scadono nel ridicolo (a voi scoprire quali). Davvero inspiegabile, infine, la divisione in capitoli, nonché la costruzione di alcune scene oniriche che francamente non sono che un’accozzaglia di immagini grottesche.

Ultimo elemento, che più che risultare negativo mi lascia un grande punto interrogativo, è la regia, che per quasi tutta la durata del film si presenta raffinata e meticolosa per poi perdersi in alcune movimenti di macchina totalmente fuori luogo (nello specifico, un’inquadratura “a schiaffo” mi ha particolarmente infastidita).

Mi sembra evidente che Guadagnino abbia voluto utilizzare il capolavoro di Argento come punto di partenza per una sua personale riflessione sul corpo femminile e le sue potenzialità, giungendo a conclusioni che non hanno nulla a che fare con la pellicola del ’77, ma che soprattutto abbia voluto porsi degli obiettivi troppo ambiziosi per la sua prima esperienza nel mondo della paura. Credo infatti che non sia possibile infarcire un horror di riflessioni sul passato, concetti filosofici e tanti altri elementi tipici di un film “d’autore” senza che la la struttura orrorifica del film stesso ne risenta, compromettendosi inevitabilmente.

Un horror che non è un horror, un remake che non è un remake: che cos’è, in sostanza, il Suspiria di Guadagnino? A mio avviso, come volevasi dimostrare, un’inutile e inconsistente trovata pubblicitaria che non era necessario girare o per la quale, semplicemente, si poteva trovare un altro titolo.

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