Forse potrà sembrare banale, ridicolo quasi, che il casus belli di una cruenta faida familiare sia l’ombra proiettata da un albero. In effetti lo è, il regista e sceneggiatore de “L’albero del vicino”, Hafstein Gunnar Sigurdsson, lo dichiara apertamente. Sono gli elementi ordinari e banali del vivere quotidiano, infatti, a costituire il bacino principale delle sue riflessioni cinematografiche. In questo caso si tratta di un film che, partendo dalle circostanze pretestuose dell’albero al confine tra due giardini, attraversa tre fasi distinte, matura e si evolve in diversi generi cinematografici nel corso della storia, pur rimanendo un insieme armonico grazie al compatto stile di regia.

La parte iniziale dipinge tre diversi nuclei familiari tra loro connessi, una giovane coppia già agli sgoccioli del matrimonio, gli anziani genitori di lui il cui figlio maggiore è scomparso, presumibilmente morto suicida, ed una coppia di vicini che non riesce ad avere figli. I toni del racconto sono qui grigi ed opachi, un po’ a rappresentare i colori freddi di una terra – l’Islanda – dove il sole non batte, un po’ a riflettere la mediocrità della comune esistenza umana. Eppure, nella difficoltà generale, tutto sembra aver assunto una sua stabilità, ciascuno fa quel che può per resistere al proprio dolore, chi guardando video porno, chi rifugiandosi alle prove del coro, chi alienando la propria sofferenza nelle cure per gli animali domestici o nei quotidiani giri in bicicletta. La storia sembra dunque rimanere inizialmente entro i confini del dramma domestico.

L’atmosfera generale del film si intensifica quando i diversi personaggi modificano il proprio atteggiamento verso la realtà ed iniziano a reagire alle circostanze, piuttosto che limitarsi a subirle. Il giovane padre, in lite con la moglie, decide di rapire la figlioletta dall’asilo ed esercitare la sua paternità negata, la vecchia coppia di anziani risponde con una serie di atti vandalici all’insistente richiesta dei vicini di sfoltire un po’ quell’albero che tanto oscura gran parte del loro giardino. La narrazione si fa più dinamica, la macchina da presa inizia ad agitarsi maggiormente e la musica, spesso inserita diegeticamente, assume una funzione sempre più di rilievo nel sottolineare l’evoluzione thriller del racconto. Due note gravi di pianoforte commentano la scena più grottesca del film, quella che darà la svolta irreversibile a questa complicata serie di relazioni. L’anziana donna, che sta rivivendo il dolore per la morte del figlio nella misteriosa scomparsa del gatto, decide di vendicarsi sui vicini, che reputa responsabili, adescando il loro cane. La vediamo apparire tra i cespugli con un pezzo di carne in mano, l’espressione del volto ambigua ed una musica di sottofondo che per l’appunto contribuisce al raggiungimento di una tensione drammatica tale, da rendere tutto ciò che segue perfettamente intuibile.

Il finale rappresenta quanto di più lontano ci sia dalla banalità e dall’ordinario. Il tono del racconto adesso si fa quello della tragedia vera e propria, si compie la metafora insita del film, ovvero della guerra di confine, e la parte maschile della storia viene sterminata integralmente, in un tripudio di sangue e situazioni cruente. L’elemento della quotidianità riaffiora un’ultima volta solo nella scena finale, quasi a mo’ di beffa, con il rientro in casa del gatto, allontanatosi probabilmente solo per una battuta di caccia.

La pellicola di Hafstein Gunnar Sigurdsson non vuole dunque limitarsi alla descrizione pura e semplice di una porzione di realtà, ma si proietta su un orizzonte molto più vasto. Che le due famiglie contrapposte rappresentino le parti in causa di un conflitto bellico è infatti fin troppo evidente, il regista stesso lo conferma in un’intervista. Così anche l’effimera questione creatasi intorno all’ombra dell’albero è troppo banale per rappresentare la ragione concreta di questa catastrofica vicenda. Si tratta piuttosto di una causa apparente, che sottende ad una rete molto più vasta e sotterranea di  sentimenti, vicende ed umori, che solo superficialmente hanno a che fare con una quercia. Quale sia la vera motivazione di tanta  insofferenza ed intolleranza nei confronti del prossimo è il quesito centralo che il regista islandese cerca di affrontare nell’arco del film. Lo fa con una vena a tratti satirica (per quanto spesso un po’ macabra) ed uno stile asciutto, che compie una rinuncia totale ad ogni tipo di estetismo dell’immagine, in favore di un racconto estremamente conciso ma allo stesso tempo molto efficace e che si inscrive perfettamente nel quadro della cinematografia nordica. Le influenze registiche passano visibilmente infatti per l’esperienza artistica di autori come Micheal Heneke, Joachin Trier, fino a quella del regista danese Thomas Vinteberg.

Non stupisce granché che il film sia stato candidato all’Oscar nella sezione film stranieri ed abbia incontrato un successo diffuso ai vari festival europei. Non soltanto infatti si tratta di un film che riesce continuamente a sorprendere e catturare lo spettatore, con una gestione ben calibrata dei ritmi narrativi, ma la vicenda stessa, seppur piccola e contingente, apparentemente quasi una storia di cronaca nera, ha qualcosa di molto più universale ed urgente da raccontare.

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