Se si prova a digitare su Google parole come “Grecia” e “crisi”, si aprirà agli occhi uno scenario inquietante, desolato e quasi apocalittico, con titoli di giornali funesti quali «Grecia alla fame», «Ripresa economica sulla pelle dei poveri», «Grecia ostaggio della crisi, fra ospedali al collasso e miseria», «Fuga dalle banche greche»,  «Sull’orlo della bancarotta». Era il 2009 quando il virus-crisi, fino a quel momento in incubazione, scoppiò e iniziò il suo lento decorso, infettando il sistema nervoso economico della Grecia, lasciando il paese come un moribondo infermo e scheletrico e mandando nel panico le economie mondiali per allarme di contagio. La “punizione” per la Grecia sarebbe stata quella di vivere in una sorta di bolla isolante, la quarantena, e di essere sottoposta a salassi di “sangue d’oro” per arginare l’epidemia. Curioso notare come la radice etimologica di “crisi” sia riconducibile al termine greco “krisis” che, oltre all’accezione di “scelta, decisione”, era usato in ambito medico per indicare un improvviso cambiamento di fase nel corso di una malattia, un momento decisivo per determinare la guarigione o meno del paziente.

Ed è in questa particolare sfera che fa riferimento alla patologia, al deterioramento psicofisico del corpo umano, che sembra prendere le mosse la cinematografia greca dell’ultimo decennio. Uno stato critico che, manifestatosi nella realtà economica del Paese, viene traslato, nella finzione dell’arte, in un cinema che lo rende corporeo e fisico nel senso più prettamente fisiologico: una particolare fase morbosa, l’esasperazione di una situazione. In questo “cinema della krisis”, una krisis estendibile al mondo contemporaneo, non sembra tanto interessare una reale denuncia agli effetti economico-politici devastanti per la società quanto piuttosto osservare gli effetti parossistici di questo “morbo” e rappresentare come abbia collateralmente afflitto e infettato i legami affettivi umani (e a partire da questi, anche i costrutti sociali che ne derivano).

Il 2009 è l’anno emblematico di un parto quasi gemellare: ad ottobre il governo socialista di Georges Papandreou annuncia un punto di non ritorno nel deficit e nel debito pubblico greco, con conseguente imposizione di una severa politica di austerità e tagli alle spese statali, mentre a novembre esce nelle sale del Paese il film cardine di questa Nuova Cinematografia Greca: Kynodontas di Yorgos Lanthimos.

Nonostante i giovani cineasti greci si trovassero allo sbaraglio, privi di un sostegno statale per realizzare le proprie idee e con un budget minimo, hanno dato vita a un nuovo modo di fare cinema, intimo, basato sul sostegno reciproco e sulla volontà di creare a partire da una struttura scheletrica. Un cinema ridotto all’osso.

Tra i rappresentanti di questo nuovo corso spiccano due figure: Athina Rachel Tsangari, regista e fondatrice nel 1997 della Haos Film, che vide nel giovane talento di Yorgos Lanthimos una possibilità di riscatto per il moribondo cinema greco, producendone i primi tre lungometraggi (Kinetta, Kynodontas, Alps). Classe 1973, Lanthimos si diploma in regia alla Stavrakos Film School di Atene. Durante gli anni Novanta inizia ad approfondire le possibilità audiovisive della televisione dirigendo pubblicità, videoclip musicali, cortometraggi e spettacoli teatrali. Il suo vero approdo alla regia cinematografica avviene nel 2005, anno in cui realizza l’enigmatico e sperimentale lungometraggio Kinetta: tre individui – un fotografo, un uomo inspiegabilmente fissato con le BMW e una cameriera – “indagano” su alcuni casi di omicidio e violenza e li rimettono in scena. Con una forma che spiazza fin da subito lo spettatore e lo disorienta, Kinetta è stato definito il manifesto poetico di Lanthimos, summa della scarnificazione del mezzo cinematografico che in diverse modalità investirà anche gli altri successivi lungometraggi.

Lanthimos destruttura lo stesso principio su cui si basa l’arte cinematografica, l’illusione di finzione, riducendo al minimo il “battito cardiaco” del film (l’azione e i dialoghi), spolpando via gli artifici scenici e rendendo perennemente invadente l’occhio della macchina da presa tramite un uso a mano, basato su movimenti grezzi, volutamente amatoriali e spesso fuori fuoco, che rendono molesta la visione.

L’impatto che si ha ricorda lo stesso che scaturisce alla visione di un film appartenente a “Dogma 95”, movimento avanguardistico cinematografico ideato nel 1995 da Lars Von Trier e Thomas Vinterberg, che invocava un “voto di castità” del mezzo cinematografico tramite una totale epurazione dall’eccessiva “cosmesi”, ovvero il complesso degli effetti speciali e degli artifici tecnici di messa in scena della finzione propri dei film ad alto budget – la colonna sonora, l’illuminazione, gli artificiosi movimenti di macchina, la scenografia, i ritocchi digitali –, rei di illudere e ingannare il pubblico: «Il risultato è vuoto. Un’illusione di pathos e un’illusione d’amore. Per Dogma 95 il cinema non è illusione!».

Kinetta svela una sottile volontà metacinematografica con la quale Lanthimos compie un preciso atto di sovra-esibizione del mezzo cinematografico che, allo stesso tempo, lo denuda fino a mostrare le strutture portanti, l’ossatura. I tre individui protagonisti del film, nel mettere in scena le violenze, rimandano a un rudimentale set cinematografico: un operatore di ripresa, il regista e l’attrice. Sarà proprio quest’ultima, marionetta per eccellenza, a diventare succube della stessa logica di riproduzione, non distinguendo più morte reale e morte inscenata. In quasi tutti i suoi film Lanthimos sembra essere ossessionato dal rapporto tra realtà e finzione, appagato nello sperimentare come l’equilibrio tra questi due mondi sia precario e come la loro unione o, al contrario, la totale mancanza di uno o dell’altro, possa essere letale.

In Kinetta la stessa recitazione, una delle vertebre che formano la spina dorsale del cinema perché essenziale a “illudere” lo spettatore, diviene parodia di se stessa con l’intento di descrivere le dinamiche e gli atti del movimento, quasi si analizzasse una sceneggiatura. Kinetta è l’esasperazione estrema di una particolare tendenza recitativa che è rintracciabile in tutti i film di Lanthimos (e in molti altri film greci), quella che vuole volutamente avvicinare l’attore-essere umano all’automa, espropriandolo esattamente di ciò che ontologicamente la recitazione è: immedesimazione in qualcun altro da sé ed espressione delle emozioni umane. I personaggi, estranei da sé e dagli altri, paiono non prendersi veramente sul serio e forzati nell’assumere l’identità che stanno mettendo in scena: disinteressati, se non addirittura incapaci, di mostrare alcun sentimento. La finzione viene forzata a tal punto da diventare grottesca e buffa in senso straniante; l’inespressività agghiacciante, tanto innaturale quanto assurda e bizzarra. Così l’essere umano di Lanthimos viene depersonalizzato, svuotato della propria persona, e tale è il personaggio. 

“Kynodontas”: quando la realtà è una casa delle bambole

L’estetica dell’immagine dei film di Lanthimos cambia nel successivo Kynodontas, film vincitore del Premio “Un Certain Regard” al Festival di Cannes del 2009, facendosi così pulita e precisa da risultare sterilizzata, sottoposta a intervento chirurgico. Ed effettivamente l’intervento operato dal regista è quello sull’anatomia di una “normale” famiglia greca media.

Tre fratelli, due femmine e un maschio, vivono un’esistenza segregata nelle pareti di casa per volere dei genitori. Questi ultimi, infatti, sono ossessionati dall’idea di tenere i figli, ormai giovani adulti, in una ‘provetta asettica’, protetti dal ricettacolo di abomini che il mondo riserva. Ciò che accade all’esterno del cancello? È solo un’infinita e irreale estensione delle pareti di casa. Quella di Kynodontas è la messinscena di un vero e  proprio esperimento sociale: la costruzione in laboratorio di un mondo parallelo – irreale e inconcepibile in modo comico e inquietante –, per osservare l’agire umano nel momento in cui gli vengono sostituiti gli schemi tradizionali di pensiero. Lanthimos ci mostra cos’è un uomo se sottratto dal suo essere un “animale politico”, un essere che per natura deve vivere il sociale in modo comunitario. Rimane l’animale e basta, un corpo biologico incapace di immaginare, un automa che vive un’esistenza atrofizzata e sospesa.

Quello del regista è uno studio sui sentimenti disinfettati dall’affetto, “dis-affettati”, come fossero un mero atto istintivo proprio della specie umana, un riflesso nervoso a cui si reagisce in maniera automatizzata. Cresciuti come animali in cattività (esemplare in questo senso la scena in cui il padre li induce ad abbaiare come cani per scacciare la feroce minaccia di un gattino), i tre giovani non possiedono nemmeno dei nomi: sono la Figlia Maggiore, la Minore e il Figlio; i ruoli vanno a sostituire l’identità, precludendo così la possibilità di chiamarsi e definirsi come individui e vietando di conseguenza una riflessione sul sé.

E qui subentra l’importanza del logos – tema portante nei film del regista -, la funzione sociale del linguaggio considerato come ciò che mette in forma il pensiero e ordina il reale: «Un mare è una poltrona in cuoio con braccioli di legno come quella che c’è in soggiorno», recita la voce registrata dei genitori, l’Autorità. Sotto la pellicola dell’assurdità rappresentata, Kynodontas insinua una specie di dissimulata satira politica: l’unione arbitraria tra concetti e parole può influenzare il pensiero e modificare lo stato delle cose, alterarne la percezione e portare gli individui a credere ad assurdità logico-ideologiche instillando paure e ansie. E molte volte su queste paure ed ansie si costruiscono le fortezze dei modelli sociali dominanti, quale la fobia dell’esterno, dell’estraneo: «Se resterete all’interno, starete al sicuro», «Un bambino è pronto a lasciare la sua casa quando il canino cade» continuano a ripetere i genitori ai figli.

Come la storiella sulla fatina dei denti, i genitori imbottiscono di false credenze i loro “bambini”, fino a inebetirli. Quello creato nei film di Lanthimos è spesso un microcosmo – tanto parallelo quanto vicino alla realtà – che si regge da solo e possiede il suo solipsistico sistema di rituali, leggi e sovrastrutture; una vera società in miniatura con un proprio sistema distorto che manipola il vivere dei personaggi.

In Kynodontas, per esempio, il mondo diventa la casa e il fuori non è neanche concepibile con l’immaginazione. Ma nel momento in cui viene introdotta una minima “contaminazione” esterna, le fragili pareti di cartapesta della casa tentennano:  sarà proprio il cinema che «con la dinamite dei decimi di secondo fa saltare questo mondo simile a un carcere». L’atto d’amore di Lanthimos nei confronti del cinema è qui, nel mostrarci la sua capacità di liberare la mente e dare la possibilità di concepire mondi diversi con cui confrontare e problematizzare quello reale. È un film che parte dal cinema per tornare nel cinema: un prodotto di fantasia – un film – su un mondo artificioso che implode grazie alla stessa forza della finzione; un film che finisce proprio lì dove l’esterno e la vita reale cominciano, lasciando lo spettatore indolenzito, come se un canino affilato (kynodontas, in greco) gli fosse penetrato nella carne.

Con soli 250.000 euro Lanthimos realizza un film che come un difetto di fabbrica è anomalo, imperfetto, deviato, ma che proprio per questo spicca su tutti gli altri innumerevoli prodotti che escono dalla “catena di montaggio” omologati e perfettamente identici tra loro. Il film però, così come gli altri lungometraggi del regista in lingua greca, non è mai stato distribuito in Italia.

Forse che si preferisca l’inconsapevolezza, pensando che uno “zombie” sia un amorevole fiorellino giallo sbocciato nel prato del proprio giardino?

Dal 1999 e per quasi dieci anni, al fine di garantire l’entrata e poi il mantenimento della Grecia nell’eurozona, i governi che si sono succeduti hanno falsato i bilanci e truccato i conti statali per nascondere ai cittadini la reale decadenza del Paese. In questo senso è emblematico un dialogo presente in Attenberg (2010) di Athina Tsangari: «È come se stessimo calcolando con matematica precisione la catastrofe finale. Specialmente per un paese che ha saltato l’era industriale tutta insieme. Dai pastori ai bulldozer, dai bulldozer alle miniere, e dalle miniere direttamente alla piccola isteria borghese. Abbiamo costruito una colonia industriale su un recinto di pecore e pensato che stavamo facendo la rivoluzione» dice il padre a Marina, giovane protagonista del film. Marina è la maschera della dissociazione e della repulsione verso gli altri; un “riccio” che non permette a nessuno di avvicinarsi, si compiace nel compiere atti nonsense e trova rassicurante la piatta uniformità della società in cui vive: è un prodotto aberrato di essa.

È come se i cineasti greci avessero reagito al grido di «basta imbottirci di inganni e bugie»: l’illusione (artistica o politica che sia) può essere infatti confortevole, una pillola indorata analgesica che certamente allevia dal dolore ma allo stesso tempo anestetizza la percezione alla vera problematicità della realtà. Non guarisce e non rende coscienti del male. È vero che quello greco è un cinema pessimista e a tratti nichilista, che non cerca di dare sollievo ed evasione a chi lo guarda ma, anzi, si rende appositamente sgradevole. Punge per tenere consapevoli e critici perché, come un cactus, il terreno in cui cerca di proliferare è un habitat estremo, arido e sterile. Il cinema greco ha fatto della necessità la sua impellenza, andando dritto fino all’osso.

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