Che la formazione dei due registi di “Parigi a piedi nudi” non sia esattamente di matrice cinematografica è ben chiaro fin dalla prime inquadrature. Dominique Abel e Fiona Gordon sono infatti una coppia di attori/registi attivi sulla scena teatrale da oltre 25 anni, lavorano attualmente in pianta stabile in un open space di Bruxelles, ma le rappresentazioni dei loro testi hanno avuto una circolazione mondiale. Incontrano per la prima volta la dimensione cinematografica negli anni Novanta con il cortometraggio “Merci Cupidon” e “Parigi a piedi nudi” costituisce il loro quarto lungometraggio.

Il racconto prende avvio sulla cima di una montagna, da cui si intravede un desolato centro abitato nel Canada ricoperto dalla neve (per tutto il film pare che in questo paesino non debba succedere altro che nevicare incessantemente). Sotto la tempesta una giovane zia, Martha, annuncia alla nipotina Fiona l’imminente e definitiva partenza per Parigi. Molti anni dopo, in modo del tutto stravagante, una ormai cresciuta Fiona (interpretata dalla regista Fiona Gordon) viene convocata in aiuto dell’ottantenne zia Martha (Emmanuelle Riva). Con una lettera finita nella spazzatura, successivamente recapitata tra la nevi del Canada, zia Martha comunica che la sua vita libertina e bohemien è minacciata dall’intervento di assistenti sociali che vorrebbero rinchiuderla in una casa di riposo. Prontamente Fiona abbandona la piccola e desolante realtà di paese per avventurarsi nella metropoli e riscattare la libertà compromessa della zia. L’arrivo nella grande città è però particolarmente traumatico e rocambolesco, si apre con l’incidente del tuffo nella Senna (quasi a mo’ di battesimo), e prosegue in una spirale di catastrofi che si concludono con la misteriosa scomparsa della zia. Interviene a questo punto un terzo personaggio, quello di un clochard  intraprendente ed un po’ vanitoso, Dom (Dominique Abel), che vive sul lungo Senna e si ritrova fortuitamente coinvolto nella vicenda. Sarà infatti lui a ricongiungere la latitante zia Martha alla nipote.

L’intreccio discretamente complicato, che vira ad un certo punto verso una piega quasi da giallo, è in realtà pretestuoso. I veri elementi caratterizzanti della messa in scena sono piuttosto le continue trovate comiche,  dalle semplici gag (che si rifanno ai lazzi tipicamente teatrali, agli sketch della slapstick e della comicità rivendicata di Jacques Tati) fino ad elementi da pura commedia plautina, tra i quali quello dello scambio dei personaggi. E’ inoltre  la recitazione molto atletica, quasi acrobatica ( in momenti come quello di uno stravagante tango ballato a bordo Senna), oltre che le espressioni  teatralmente esasperate ed un po’ stranianti dei protagonisti, a dare dinamismo al film. Un contributo importante viene inoltre da Emmanuelle Riva (zia Martha), che dopo l’ultimo pluripremiato film di Heneke, “Amour”, ritroviamo nei panni di un’allegra ma determinata ex ballerina in fuga dalla vecchiaia, che esibisce un distinto lato comico, oltre che una performance di tip tap molto divertente.

L’ascendenza teatrale non si limita però allo stile interpretativo degli attori, ma si riflette anche su una rappresentazione artificiale e stilizzata di Parigi, costruita attraverso una rete di luoghi simbolici ( come il lungo Senna o l’immagine troneggiante della tour Eiffel, fino addirittura ad una riproduzione della Statua della Libertà), tutti inspiegabilmente, ma allo stesso tempo inscindibilmente collegati tra loro. I protagonisti seguono per la durata del film a riconcorrersi tra un posto ed un altro (dal Canada alla Francia, da un punto all’altro dei sobborghi parigini) con lo spirito avventuroso, un po’ ingenuo dei bambini, sempre attento a tenere a debita distanza il resto della società, che con il suo grigiore ed il suo  cinismo spietato minaccia la loro vitalità sfrenata.

“Noi resistiamo allo spirito pessimista e violento dei nostri tempi” dicono i due registi Dominique e Fiona; è pur sempre vero, però, che la fuga continua e la totale mancanza di contatto con la società, rappresentano risposte non definitive, a volte un po’ vane, alla concretezza brutale della realtà.

Martina Ventura

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