Lee Chang-dong, acclamato regista sudcoreano già vincitore del premio per la migliore sceneggiatura a Cannes con Poetry (2010), ha ottenuto nuovi riconoscimenti internazionali con Burning, uscito nelle sale di varie nazioni nel 2018 e da quest’anno disponibile anche in quelle italiane. Tratto da un racconto breve del celebre autore giapponese Haruki Murakami, ma ambientato nella Corea del Sud anziché in Giappone, ha come protagonista il giovane Jong-su (Yoo Ah-in), neolaureato con il sogno della scrittura che ritrova per caso una sua conoscente d’infanzia, Hae-mi (Jeon Jong-seo). Dopo che i due iniziano a frequentarsi, Hae-mi parte per un viaggio in Africa e al suo ritorno la accompagna il nuovo amico Ben (Steven Yeun), opposto in tutto e per tutto a Jong-su. Il sottile conflitto tra i due per l’amore della ragazza prenderà col tempo una piega sempre più misteriosa e disturbante.

Burning si distingue, tra i vari aspetti, per la sua lunga durata, divisa in due parti separate da un evento di grande rilevanza. Vediamo perciò una prima metà basata sulla relazione romantica e costruita sul dialogo, al quale tutto è subordinato, inclusa la colonna sonora (non a caso quasi assente). La seconda metà prende invece la strada del thriller psicologico, con predominanza di situazioni ansiogene, silenzi assordanti e riscatto prepotente della colonna sonora che diventa specchio dei risvolti inquietanti assunti dalla trama.

Soprattutto nel corso della prima parte, il film di Lee richiede un grado di pazienza non indifferente. La lentezza degli avvenimenti, al contrario di quanto si potrebbe pensare, non è il problema principale. L’elemento di disturbo sta nei personaggi principali e nella loro caratterizzazione. Ognuno dei tre ha una personalità eccessivamente fuori dagli schemi, che esprime in maniere altrettanto accentuate. Jong-su ha enormi problemi in qualunque tipo di relazione sociale; Hae-mi è oltremodo disinibita e bizzarra; Ben è il bel tenebroso della medio-alta borghesia pieno di esperienze da condividere. I dialoghi tra questi personaggi finiscono spesso col risultare inutilmente innaturali e sopra le righe, come fossero stati scritti al solo scopo di stupire il pubblico. In generale, empatizzare con simili protagonisti diventa decisamente difficile.

È la seconda metà di Burning a risollevare il complesso. Il punto focale è ora diventato il solo Jong-su; questo permette alla trama di deviare lungo una via nella quale le forme della narrazione audiovisiva arrivano ad affiancare la sceneggiatura. Regia, musica e gestione dei dialoghi danno un’enorme spinta allo sviluppo delle vicende, anche riallacciandosi a dettagli visivi precedenti, per arrivare a un finale che è il picco della potenza del film e contribuisce a ricompensare gli spettatori riusciti a giungere fino a quel punto. Anche per questo Burning è da lodare: perché dimostra come elementi che sono propri solo dei media audiovisivi possano controbilanciare una scrittura difettosa, o addirittura arricchirla ed elevare il risultato complessivo.

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