«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» riporta il Vangelo secondo Matteo.
«Beati i poveri, perché di essi è la vera bontà in Terra» sembrano suggerire i grandi occhi castani di Lazzaro (Adriano Tardiolo), giovane contadino non ancora ventenne, che con incondizionato altruismo vediamo aggirarsi e affaticarsi per i campi di tabacco dell’Inviolata, sterminato e arido podere della Marchesa Alfonsina De Luna (Nicoletta Braschi), prodigandosi senza sosta per aiutare gli altri braccianti, la sua famiglia. In una condizione di miseria assoluta – una sorta di odierno regime feudale della mezzadria dove i servi della gleba sono proprietà del padrone – Lazzaro guarda il mondo con lo sguardo illuso e puro del fanciullino che di tutto si meraviglia e a tutti crede, con autentica ingenuità e disarmante bontà di cuore: un innato sacrificarsi per la felicità del prossimo.
A differenza degli altri esseri umani, infatti, non concepisce l’altro come possibile minaccia al proprio benessere e ai propri averi, non concepisce lo scontro e l’inganno come possibile mezzo per arricchirsi egoisticamente.
Da qui la pura amicizia tra Lazzaro e Tancredi (Luca Chikovani), figlio della Marchesa, che, come Narciso e Boccadoro, rappresentano opposti complementari; un’amicizia capace di non essere scalfita dal tempo e dal moto dei cambiamenti.

L’ultimo film di Alice Rohrwacher, Lazzaro Felice, vincitore del Premio per la Migliore sceneggiatura al Festival di Cannes 2018, prende vita in uno spazio interstiziale che si pone tra realismo e magia, spirito e natura, miracolo e incantesimo, creando un universo rurale e cittadino di temporalità indefinita perché sempre valido nella profonda verità che vuole narrare. Già dal titolo stesso del film, che è una sorta di ossimoro, la regista sembra voler recuperare l’immaginario collettivo cristiano e coniugarlo in chiave fiabesca, come se a un bambino venisse spiegato il Vangelo usando elementi prelevati dai Fratelli Grimm. Lazzaro è felice perché è il moribondo che viene fatto risorgere da Gesù per assurgere a testimonianza vivente del suo operato divino. Lazzaro è sia il S. Francesco che abbandona tutti gli averi materiali e fraternizza col lupo – elemento fiabesco ricorrente nel film e archetipica paura infantile – ma è anche Cenerentola che viene schiavizzata dalla matrigna e Cappuccetto Rosso che, fidandosi del lupo, viene inghiottita.

«Gli esseri umani sono come bestie. Liberarli vuol dire renderli consci della propria condizione di schiavitù. Io sfrutto qualcuno che a sua volta sfrutta qualcun altro. È un circolo», afferma la Marchesa che personifica la viziosità della corruzione e del male (non a caso sfrutta i suoi lavoratori per produrre tabacco per sigarette). L’arma per tenerli soggiogati? Il “Grande Inganno”? Lasciarli nella totale ignoranza della loro prigionia. Non si può soffrire per qualcosa che neanche si pensa esistere, ovvero una vita libera e dignitosa.
Il Lazzaro della Rohrwacher è simbolo di un ideale stato di pura bontà che, allontanata continuamente dagli esseri umani, rimane solamente come possibilità, entrando così a far parte della sfera dell’altro-dall’umano e rasentando la beatitudine divina. Egli è l’Innocente per eccellenza, fattosi carne nella Beata Ignoranza perché vive nella non-conoscenza del male, incapace di perpetrarlo verso gli altri dal momento che non lo contempla neanche come possibilità. Incarna tutti quei “Lazzari felici” che non fanno il bene come atto esteriorizzante ma sono il bene, spesso emarginati perché, come il protagonista del film, rinunciano continuamente a se stessi per gli altri e diventano prede facili di coloro che non vivono la loro stessa “santità”. Per riprendere le sopracitate parole di San Matteo, come può quindi la povertà essere beata? Se si intende “povertà” non come mancanza di beni materiali bensì, in senso lato, come accettazione di una situazione di limitatezza, quella umana, quale condizione comune da cui partire per comprendere l’importanza della solidarietà e della condivisione con gli altri, allora il povero Lazzaro sarà felice.

L’atmosfera trasognante del film, che non devia mai dal crudo realismo, crea una particolare atemporalità nel mutamento, così, dal passato al presente, dalla campagna alla città – poli di una presunta contrapposizione tra un primordiale stato di immobilità/genuinità/fanciullezza e un successivo stato di progresso/contaminazione/maturità – Lazzaro Felice si domanda se sia sufficiente la consapevolezza per migliorare la propria condizione o se, invece, a prescindere dalle coordinate spaziotemporali, si necessiti di un cambiamento ancora più profondo nella natura umana, forse inattuabile perché, come mostra la vicenda di Lazzaro, ciò implicherebbe uno spostamento su un piano altro, sovrumano. Cos’è capace di bloccare l’inarrestabile catena alimentare dello sfruttamento che, come un serpente, muta pelle nel corso delle epoche? Perché si progredisce (o si pensa di farlo), ma la bontà continua a rimanere solo in potenza? Un film spirituale – parabola fiabesca del giorno d’oggi –, devoto a quella che la regista ha definito una «religione dell’umano, e non di una religione ufficiale, con i suoi vestiti sgargianti e regole settimanali», nonché manifesto politico che non narra dei soliti eroi ribelli, bensì di santi fantasmi – perdenti, silenziosi e incapaci di fare miracoli – che vivono ai margini della società e della storia nella Profana Conoscenza degli altri.

 

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