“Cosa li costringe a questo?” – László

“La sopravvivenza, forse.” – Dr. Stern

“Vale la pena di morire?” – László

Penetrato clandestinamente attraverso la frontiera ungherese, Aryan sta scappando dalla Siria con il padre e altri connazionali. Intercettati dalla polizia, i due si perdono. Aryan corre più forte che può attraverso il bosco, ma viene raggiunto da un poliziotto, László, che lo fredda con diversi colpi di pistola. Miracolosamente, Aryan non muore: il suo corpo si stacca da terra, librandosi sopra gli alberi come un essere celeste.

Da principio è proprio come un angelo che il ragazzo appare agli occhi di Stern, medico caduto in disgrazia a causa dell’alcool e con le mani in pasta in ogni affare che circola per il campo profughi. Un angelo venuto per risolvere tutti i suoi problemi. Così il dottore lo aiuta ad evadere e Aryan diventa il suo “miracolo”.

Inizia da qui lo sviluppo di un plot che oscilla tra il racconto di redenzione e il film di fuga. Non ci sono originalità particolari su questo piano: nel tentativo di raggiungere il suo obiettivo – ricongiungersi con il padre e rifarsi una vita in Europa – il protagonista è perseguitato, trattenuto, ricercato e sfruttato dalla controparte giocata dal meschino Dott. Stern. Questi mette in atto un suo personalissimo progetto di redenzione, sfruttando il “dono” di Aryan per far abboccare pazienti facoltosi e creduloni.

In questo senso, il dottore non è diverso dal funzionario di polizia László o dall’attentatore che ruba l’identità del padre di Aryan: tutti personaggi-ostacolo che rallentano il percorso del ragazzo e lo costringono a lunghe deviazioni fuori dal tracciato. Solo dopo aver superato il proprio egoismo – dopo aver “guardato in alto” e smesso di “vivere orizzontalmente”, citando Stern – il dottore si redime, aprendo ad Aryan una via d’uscita.

L’atmosfera è chiusa sui personaggi, braccati dalla polizia di frontiera. La fotografia fredda e costellata di toni verdoni e gialli acidi, rende l’idea di un’Ungheria inospitale e intrisa di vecchiume, un posto insalubre e respingente. La cifra particolare di questo film, sta nella scelta del regista di sublimare l’impulso alla fuga, l’istinto primordiale di sopravvivenza dell’essere umano, in un fenomeno paranormale, donando al protagonista la capacità di librarsi in aria. Allegoria spicciola, forse, ma che catalizza l’attenzione dello spettatore sul movimento dal suolo caotico e potenzialmente mortale, alla pace sospesa del cielo. Il regista, Kornél Mundruczó, sembra voler invitare a riflettere su questo movimento di ricerca della salvezza, questa perenne fuga dalla morte e dal dolore che innesca la levitazione in Aryan.

L’immagine del ragazzo, sagoma pallida e indifesa, sospeso sopra il lettino dell’ambulatorio mentre anche le gocce di sangue che stillano dal suo petto sembrano ascendere al cielo, viene subito presentata come qualcosa di sacro, mistico e rivelatore. Il finale surreale e poetico chiede a gran voce che venga conferita tale sacralità anche a quella ricerca di salvezza per sé e per i propri cari che spinge ogni giorno migliaia di uomini e donne a intraprendere lunghe e pericolose traversate verso l’Europa, il confine USA/Messico, e tante altre frontiere presenti nel mondo.

Nonostante diverse critiche siano state mosse contro l’eccessiva insistenza sui momenti “aerei” del protagonista, questi non pesano, né tantomeno si atteggiano a sfoggio sfacciato degli effetti speciali (peraltro ottimi, molto discreti). Funzionano, invece, come parentesi riflessive, dove le minacce che pendono su Aryan si neutralizzano momentaneamente.

Andare verso l’alto è cercare la luce, la vita.

Forse è nelle battute citate in apertura che è racchiuso il motore del film: è la sopravvivenza che spinge Aryan a volare, e con questo il regista ungherese ci porta a riflettere sull’ urgenza di renderci conto della forza di questo bisogno primordiale, di riconoscerlo, legittimarlo e sostenerlo.

Con “Jupiter’s Moon” Mundruczó non consegna allo spettatore un film perfetto. Le incertezze rimangono, soprattutto nella sceneggiatura, a tratti troppo retorica, e molto viene sollevato (mi si passi il doppio senso) senza che si arrivi sempre a chiudere il cerchio. Resta un’interessante prospettiva su un tema come l’immigrazione, dove l’orrore quotidiano di chi fugge viene mostrato attraverso la lente della speculazione fantascientifica.

In Italia è uscito con il titolo “Una luna chiamata Europa”, nelle sale dal 12 luglio 2018.

 

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