Dopo il funesto 2020, il 2021 ha visto il ritorno del prestigioso Festival di Cannes nella sua forma tradizionale. Il suo massimo riconoscimento, la Palma d’Oro, quest’anno è invece andato ad un film tutt’altro che tradizionale per gli standard dei vincitori: Titane di Julia Ducournau. Seconda donna dopo Jane Campion a vincere il premio, Ducournau racconta una storia che ricade a pieno titolo nel sottogenere del body horror. Alexia (Agathe Rousselle), showgirl di mestiere e serial killer in segreto, una sera ha un inesplicabile rapporto sessuale con un’auto apparentemente senziente. Dopo poco la ragazza si macchia dell’omicidio di numerose persone ed è costretta a fuggire creandosi la nuova identità maschile di Adrien, andando ad abitare nella casa del vigile del fuoco Vincent (Vincent Lindon). Durante tutto questo, Alexia/Adrien scopre di essere incinta, nientemeno che dell’auto di pochi giorni prima.

“Disturbante” è di certo l’aggettivo più indicato per definire Titane. Non solo per gli elementi funzionali alla trama, come i brutali omicidi, l’assurda gravidanza di Alexia e le disagevoli attenzioni di Vincent nei suoi confronti, ma soprattutto per gli elementi di contorno.  A cominciare dalla violenza, che in Titane non è frequentissima, ma sempre particolarmente incisiva. Il film conosce alla perfezione i punti giusti da colpire, senza sparare alla cieca come un action o lanciare affondi appena accennati il dramma familiare medio. Ogni gesto violento mette estremamente a disagio, sia per il tipo di violenza usata, spesso autoinflitta, sia per la messa in scena che potenzia in modo straordinario tutti queste azioni.

Centrale è la figura di Alexia, complessa e stratificata. Già nella sequenza iniziale, quando a seguito di un incidente d’auto le fu impiantata una placca di titanio (da cui il titolo del film), troviamo le radici di una delle sue caratteristiche più peculiari: l’ossessione per il metallo, che la porterà all’amplesso con l’auto. La commistione di carne e metallo, tra le componenti più presenti nel body horror, qui assumono le sembianze uniche della nuova vita. Se in questo tipo di cinema la componente artificiale è per lo più un aiuto ai personaggi o, all’opposto, un impedimento, nel film di Ducournau assistiamo alla vera e propria unione dei due mondi nella creazione di un ibrido.

Alexia tuttavia non unisce soltanto il mondo organico con l’inorganico, ma anche i mondi costruiti su identità di genere e orientamento sessuale. La sua “trasformazione” in Adrien implica la coesistenza dei generi e dà origine a un rapporto, quello tra Alexia e Vincent, che altrimenti non si sarebbe verificato. Vincent, uomo ossessionato dalla propria virilità e dalla forma fisica, vive un rapporto ai limiti dell’incestuoso con la persona che crede essere suo figlio, infrangendo vari stereotipi fino al finale, in cui giunge a compimento il percorso tematico portato avanti dal film.

Titane è dunque, in sostanza, una storia d’amore dai più volti. Il concetto chiave è chiaramente la diversità: nulla di ciò che rappresenta è riconducibile alla cosiddetta normatività, e tutto ci viene mostrato in una luce che, per quanto a volta rappresentata paradossalmente come oscura, finisce per illuminarci. Un’allegoria contemporanea, sempre attenta alla realtà dei tempi che l’hanno generata ma mai scontata, stereotipata e stucchevole, che con la vittoria a Cannes varcherà un nuovo palcoscenico, nella speranza di contribuire, nel suo piccolo, a una nuova corrente di rappresentazione dei rapporti umani.

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