Charlie Kaufman è uno degli autori più stravaganti, bizzarri e anti-convenzionali di Hollywood. Le sue opere sono spesso sorprendenti e innovative. Condite di elementi filosofici, metafisici e astratti, lo sguardo di Kaufman è unico e lontano dal cinema tradizionale. Negli ultimi anni si è distaccato notevolmente da una messa in scena votata sulla comprensibilità narrativa e si è concentrato a dar vita a opere d’arte concettuali che in profondità scavano sull’animo umano. Autore di culto, in particolare per quanto riguarda la scrittura di una sceneggiatura, che però non sempre soddisfa e convince. In particolare quest’ultima opera, Sto pensando di finirla qui, opera realizzata per Netflix e adattamento dell’omonimo romanzo di Ian Reid. Sicuramente, vista l’attuale piattezza cinematografica, il lungometraggio è una ventata di aria fresca, una grossa boccata d’ossigeno, ma rimane pur sempre una pellicola di nicchia in quanto di difficile comprensione.

Se non riuscite a mantenere l’attenzione alta per tutto il film vi sconsiglio la visione poiché la storia va seguita senza distrazioni. Il rischio è di perdersi nel tempo e nella diegesi volutamente confusa.

La pellicola parte in modo tranquillo, lento, dove viene utilizzato il classico espediente americano del “porto la mia fidanzata a conoscere i miei genitori”, il “ti presento i miei”. Bufera di neve, un viaggio in macchina, una coppia che si frequenta da poco. L’incipit, apparentemente, è semplice e classico. Narrativamente, viene utilizzato un voice over, che dà voce ai pensieri di lei che, incerta sulla loro relazione, medita di troncarla prima possibile. Da qui il titolo “sto pensando di finirla qui” che viene usato quasi come un mantra della protagonista che lo scandisce costantemente. Consapevole che la sua relazione non avrà un futuro, incuriosita posticipa la rottura perché “fa parte della natura dell’uomo” rimandare tale decisione per non rimanere soli. Il clima non idilliaco tra i due si evince sin dalle prime inquadrature in quanto c’è una distanza di guardi, di pensieri e di battute. Non c’è una vera conversazione distensiva, calorosa e sorridente. Tra loro c’è una sorta di guerra fredda, ognuno sta sulle sue e i dialoghi che avvengono sono perlopiù intellettuali, colti, per dimostrare la propria bravura. Una sorta di conflitto per dimostrare più dell’altro o perlomeno di essere pari. Arrivati alla casa-fattoria dei genitori di lui, Jake presenta i suoi due bizzarri e strani genitori. Da quel momento, si passa da commedia drammatica ad una sorta di surrealismo dove la storia inizia ad assumere contorni grotteschi, inquietanti e “al di fuori di ogni logica e tempo”.

La proprietà dei genitori è inquietante con la zona fattoria che viene trascurata, dove gli agnelli vengono lasciati morti congelati nella neve. Lo stesso interno della dimora è oscuro, orrifico con la porta del seminterrato piena di graffi di un misterioso animale e con le fondamenta incomplete. Elementi da film horror che sono un punto di svolta nella narrazione. Gli stessi genitori di Jake sono strani. Seppur siano contadini e provinciali, conoscono le cose essenziali del mondo e sono uno l’opposto dell’altro. Rappresentano i classici cliché poiché la mamma, ignorantella, elogia costantemente il figlio, i suoi successi e ne tesse costantemente le lodi; il padre ha un contrasto forte con suo figlio e non lo guarda mai direttamente, colto e pragmatico, ha un’ammirazione verso la protagonista. Jake invece è una persona introversa, quasi invisibile, tutti parlano di lui come se non fosse presente nella stanza. Osserva tutto e tenta di sembrare un buon figlio affettuoso mentre in realtà è insoddisfatto. Sembra quasi riuscire a sentire i pensieri di lei ed è guardingo e ambiguo. Anche nell’ambiente casalingo, i conflitti di coppia emergono ma cambiano e passano ad un livello onirico in cui il tutto è filtrato dal punto di vista di lei. Si passa quasi in una dimensione priva di tempo e di spazio. Un flusso di coscienza (ma di chi?) dove passato, presente e futuro si uniscono e si viene catapultati ad una esperienza conflittuale di coppia extra-temporale. Dai dialoghi colti e pungenti presenti nella prima parte, arriviamo a suggestioni surrealiste e metafisiche dove le domande esistenziali dell’esistenza emergono prepotentemente. Ragionamenti profondi sull’animo umano. Quindi è un viaggio nell’inconscio di una coppia pronta a scoppiare che in realtà, a causa dei misteri della vita, continua a rimanere insieme, unita ed ancorata da una misteriosa forza.

La pellicola assume sempre di più connotazioni oniriche atemporali e perde la propria linearità. C’è una dilatazione temporale e si entra in una sorta di bolla, quasi in una “twilight zone”. Le opere di Kaufman spesso si pongono domande esistenzialiste sul senso della vita, sul destino e sullo scorrere del tempo. Domande quasi tutte riconducibili sulla morte.

È complicato cercare di spiegare e dare un senso ad una pellicola cosi intima, onirica e particolare. Ed è proprio questo il limite del film, troppo colto e di nicchia per poter essere apprezzato dal pubblico generalista. Non è per tutti e perciò, per me, non è un’opera cosi completa e soddisfacente. Una narrazione non all’altezza per il conflitto mostrato. Tuttavia è ben strutturato e atipico nella rappresentazione. Sotto certi aspetti assume tratti alla “David Lynch” con scene cariche di simbolismo.  

Sto pensando di finirla qui mostra i conflitti non detti, tenuti dentro lungo tutta la vita di coppia che scoppia improvvisamente dopo anni. Quello che vediamo nella seconda parte è in realtà un riassunto di come le cose sarebbero dovute andare se lei avesse avuto il coraggio di lasciare Jake. Nonostante non fosse convinta appieno di lui, la ragazza, per destino o per una forza oscura, rimane ancorata a lui tutta la vita e vive conflitti interiori perché avrebbe dovuto uscire prima da tale “infelicità”, da tale bolla temporale. Il film è una rappresentazione onirica della realtà della vita dove spesso le persone vengono risucchiate da una misteriosa forza e passano la loro esistenza con la persona sbagliata. Hanno paura di dire la loro e vengono segnati per tutta la vita da tale decisione. Questo flusso di coscienza assume connotazioni deliranti, nevrotiche e metafisiche. La scelta di girare il film in 4:3 aumenta esponenzialmente la claustrofobia della storia che è ambientata principalmente in ambienti chiusi (macchina, casa, scuola). Quello che stiamo assistendo nella storia è in realtà una riflessione del passato della coppia, “un guardare indietro” alla propria vita e valutare (e rivivere) i propri sbagli. Purtroppo non si può tornare indietro nel tempo. Non si può più scappare. Forse, con il senno di poi, sarebbe stato meglio troncare prima.

La pellicola, seppur bella e profonda, è troppo discontinua e allegorica per soddisfare la visione. Sicuramente è originale nella messinscena ed utilizza forme atipiche per il genere. Tuttavia, si presenta con un linguaggio troppo aulico per veicolare flussi di coscienza universali e riconducibili allo scorrere del tempo. Spesso saccente e “borghese”, si conferma noiosa e con digressioni futili che sembrano utili solo a far emergere l’ego del regista-sceneggiatore che si bea della propria bravura.

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