Vita di un personaggio singolare ambientata nel mondo caotico e confuso delle crociere.

 

La sezione Concorso Internazionale del Biografilm Festival 2020 regala una storia che sa di realismo magico, quasi surreale, con un protagonista che non sfigurerebbe in un film di Paolo Sorrentino.

King Of The Cruise però parte da un mondo che è molto reale e che ci viene mostrato in tutte le sue contraddizioni: il mondo delle navi da crociera. Un divertimentificio in cui la cultura del divertimento è praticamente un diktat. Una realtà in cui le persone che la abitano (clienti, addetti ai lavori…) sono tutti, chi più chi meno portatori di una certa solitudine, rinchiusi in questo mondo a parte dorato ma isolato dal resto del mondo.

Proprio l’alienazione e la solitudine sono i temi principali di questa pellicola della regista olandese Sophie Dros (già autrice di My Silicon Love e Genderbende). I quali sono ben personificatati dalla figura del barone Ronald Busch Reisinger, abbreviazione di un nome ben più altisonante e complesso. Questo è un personaggio ben noto agli abitanti della nave da crociera su cui viaggia in quanto è una delle attrazioni della crociera stessa. Si presenta a tutti come un nobile di origini scozzesi, proprietario di una baronia e di un castello che, a suo dire, conterebbe più di 300 stanze.

La sua attività preferita è quella di attaccare bottone con chiunque, all’interno della crociera, raccontando storie sulla sua vita avventurosa in giro per il mondo. E ovviamente mangiare e bere a sbafo, come dimostra il suo fisico non proprio minuto.

Si tratta di un personaggio che risulta non particolarmente simpatico sotto molti aspetti. La sua figura esteriore lascia alquanto desiderare e il film indugia parecchio sui suoi sforzi nel combattere la gravità continuamente e i suoi innumerevoli problemi fisici, causati da uno stile di vita al limite del masochismo alimentare. Allo stesso tempo ne viene fuori il ritratto di un narcisista impenitente e pettegolo, dotato di una propensione per le battute e le barzellette amare e acide.

Allo stesso tempo colpisce per la sua ingenuità e innocenza. Per quanto inverosimili appaiano i suoi racconti, la sicurezza con cui racconta delle sue giornate trascorse in compagnia della nobiltà e del jet set internazionale, è davvero encomiabile.

Nessuno sa effettivamente quale sia il suo passato e se quello che racconta, così come il suo bizzarro titolo nobiliare, corrisponda al vero. La regista sceglie volutamente di lasciare da parte qualsiasi giudizio morale e critico nei suoi confronti, facendosi invisibile e lasciando che siano i suoi gesti e le sue parole a parlare. Per di più lasciando volutamente un alone di ambiguità riguardo la sua figura, per cui fino all’ultimo è impossibile stabilire se quanto Reisinger racconta sia vero o falso.Lui stesso si definisce “un intrattenitore” ma è indubbio che qualcosa di vero nei suoi racconti c’è.

La cosa certa ed evidente, tratta dalle stesse parole di Reisinger, è la sua profonda solitudine e la sua umanissima paura di morire dimenticato, forse l’unica ragione che lo spinge a partire sempre in crociera e ad intavolare i suoi show con chiunque si trovi a tiro con lui, diventando così una vera e propria “istituzione” (in tutti i sensi) sulla nave. Ma quello che viene fuori soprattutto  dalla pellicola è il racconto di una vita fatta di molte sofferenze (un divorzio alle spalle, genitori spesso assenti e violenti…) che lo rendono un personaggio veramente umano, forse l’unico veramente sincero in un mondo fatto molto spesso di falsi sorrisi e finto ottimismo. Ed è proprio questo suo lato umano il vero punto di forza dell’intera pellicola, l’elemento in grado di creare empatia con lo spettatore. Tutto questo grazie anche alle sue continue confessioni in cui si rivolge direttamente alla telecamera, come in una sorta di confessionale in cui lo spettatore veste i panni dell’unico suo amico veramente intimo.

Se non ci sono dubbi sulla falsità di alcune sue sparate inverosimili, allo stesso modo gli si riconosce una sincerità nei modi di fare, nella filosofia di vita e nelle confessioni sofferte. Così come il suo sguardo caustico e cinico sulla vita che si svolge attorno a lui, su questa nave così lussuosa in cui anche gli altri personaggi presenti soffrono (seppur in modo diverso) della stessa solitudine, solo mascherandola meglio di lui.

La pellicola è impreziosita da una fotografia molto accesa che mette in risalto i diversi comparti della nave, e da una fluidità del montaggio (unita ad una straordinaria colonna sonora) che ne fa una specie di “cartolina in movimento”, con tanto di atmosfera nostalgica e camp. Il contesto perfetto per un mondo plastificato e fasullo, in cui le giornate sono scandite dalle varie attività d’animazione che altra funzione non hanno se non quella d’intrattenere appunto, nel senso di di occupare il tempo delle persone evitando di pensare ai problemi del mondo esterno.

In questo universo fasullo, Reisinger si muove come una mina vagante, dimostrandosi a suo agio in questo regno di falsità (di cui lui è legittimamente il sovrano) ma allo steso tempo rivelandone i limiti e i difetti, con una malinconia di fondo che non esita a portarsi addosso e a mostrare in più occasioni.

Vincitore dell’ultima edizione dell’ IDFA (il più importante festival del documentario danese), King Of The Cruise è un’efficace metafora dell’alienazione del mondo contemporaneo, girato in uno dei suoi luoghi (meglio sarebbe dire “non-luoghi”) più emblematici.

Una “favola” grottesca che rilascia qualche risata ma anche molte lacrime come nella migliore tradizione della commedia dark.  E che per questo merita sicuramente una visione.

Scrivi

La tua email non sarà pubblicata