Cafarnao è un pacifico luogo di culto religioso e di miracoli biblici, terra israeliana. A pochi chilometri di distanza, quasi confinante con esso, c’è Damasco, capitale siriana, scenario dei più aspri e attuali conflitti in Medio Oriente. Salendo ancora più a nord-est verso la Turchia, c’è l’inferno di Aleppo, o meglio, la carcassa che rimane della città. In questo scontro tra caos e ordine, guerra e pace, c’è anche un piccolo luogo martoriato, brutalmente “colonizzato” e vittima degli eventi. No, non è Gaza ma è l’infanzia: terra di tutti e di nessuno.

Ma incredibilmente in Cafarnao – Caos e Miracoli – terzo lungometraggio della regista libanese Nadine Labaki e vincitore del Premio della Giuria a Cannes 2018 – non c’è neanche la traccia di uno sparo o di un bombardamento. Nessuna irruzione manifesta della guerra. Soltanto i devastanti e subdoli strascichi di essa sulle vittime che più ingiustamente ne risentono, ovvero i bambini. Non più, quindi, Israele contro Palestina, ebrei contro musulmani, sunniti contro sciiti, bensì l’eterno contrasto tra il marciume degli adulti e la genuinità dei bambini.

Immergersi nella brutalità del contemporaneo interamente con gli occhi puri di un bambino è possibile.
C’è Zain Al Rafeea, un bambino siriano nato nel 2004. Dal 2012, con lo scoppio della guerra civile in Siria, è stato privato del diritto all’istruzione e la sua famiglia costretta a trasferirsi nel vicino Libano. Dall’età di 10 anni lavora saltuariamente come fattorino di un supermercato per aiutare la famiglia a sopravvivere. E poi c’è Zain, un bambino libanese di 12 anni che vive con la sua numerosa famiglia ai margini di Beirut. Non va a scuola ma fa il garzone presso un piccolo market, per aiutare la famiglia a sopravvivere. Zain è Zain: la vita reale del primo, al suo debutto cinematografico, non si discosta particolarmente da quella interpretata del secondo, il fittizio protagonista del film. Se non che il Zain di Labaki decide come atto estremo di ribellarsi al sistema degli adulti, di scappare di casa per sfuggire alla pericolosa negligenza familiare e di portare in tribunale i suoi stessi genitori. In questo vagabondaggio della speranza il piccolo Zain, privato anche della legittima innocenza infantile, guarda in modo lucido e accusatorio le atrocità del mondo che lo circonda.

La forza narratrice di Cafarnao si libera dal vittimismo colpevolizzante con cui spesso il mondo occidentale cerca di pulirsi la coscienza, e sprigiona tutta la sbalorditiva resilienza – piena di muta tenacia alla sopravvivenza – con cui tutti quegli individui trascurati dai nostri sistemi, dei quali Zain si fa portavoce, resistono.
Le disarmanti domande che puntano il dito del bambino contro un Sistema-Mondo che non solo non ne tutela i diritti, ma ne ignora anche i bisogni più primari (salute, istruzione, amore) non lasciano alcuna via di scampo: “Perché mi avete voluto concepire in un mondo che sapevate essere invivibile? Perché continuate a far nascere vite destinate all’infelicità certa ? Perché non vi assumete le vostre responsabilità genitoriali?”.

Quella ritratta da Nadine Labaki è una realtà cruda che colpisce senza preavviso alcuno. Primi piani di volti indelebili, verso cui è difficile sostenere lo sguardo. Una realtà che, anche se spesso ignorata perché scomoda, esiste ed è peggiore di quanto immaginiamo. C’è una parte di mondo in cui le persone non possiedono neanche una propria identità – prive di documenti sono come inesistenti, vite appese al filo della burocrazia –, “insetti” non legittimati ad essere individui. Da qui prende piede un mercato nero che traffica esseri umani, smercia infanzie rubate e guadagna sulle false speranze di chi, disperato, sogna di vivere nell’Utopia-Europa perché “in Svezia puoi fare quello che vuoi”.

Se quello di Zain è un grido in faccia ai propri genitori, quella di Labaki è una denuncia universale contro chi continua a far finta di nulla. Cafarnao, dall’11 aprile al cinema, è un film essenziale. Ci lascia allo stesso tempo svuotati e arricchiti, pieni di un sentimento di doveroso imbarazzo che obbliga a riflettere, come quello che si ha quando non si è in grado di rispondere alla semplicissima domanda di un bambino.

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