È la sagoma-feticcio di Jafar Panahi posta nell’atrio del Cinema Giulio Cesare di Roma ad attirare i flash dei media durante l’anteprima del film Tre Volti, nelle sale italiane dal 29 novembre.
Perché tanto clamore? Perché Tre Volti è un film che non dovrebbe esistere. In questo senso, l’opera del regista iraniano merita di essere vista già solamente per quel che simboleggia: un estremo omaggio alla capacità eversiva dell’arte cinematografica di combattere le oppressioni.

La famosa attrice iraniana Behnaz Jafari riceve un tragico video amatoriale da una giovane ragazza il cui sogno nel cassetto è recitare. Allarmati dal contenuto, Jafari e il regista Jafar Panahi (entrambi nei panni di se stessi) intraprendono a bordo di un’auto una folkloristica e rocambolesca indagine tra gli sperduti villaggi delle montagne dell’Iran sulle tracce della piccola aspirante attrice. Un viaggio che darà risposte ma alzerà altrettanti polverosi quesiti sull’anima contraddittoria del loro paese. Un paese vitale – animato da storiche usanze, ancestrali credenze popolari e curiose tradizioni – ma affossato dall’ombra del fondamentalismo teocratico in aridi pregiudizi, ghettizzazioni, discriminazioni e vuoti rituali innalzati dalla popolazione locale a ragione di vita o di morte.

Tre Volti è uno di quei film la cui genesi è inscindibile dalla vita del suo creatore, configurandosi addirittura come una sorta di sua estensione biografica. Erede più prossimo del Maestro del cinema iraniano, Abbas Kiarostami, Jafar Panahi lotta dal 2010 contro la censura del regime islamico che lo ha condannato a sei anni di carcere, gli ha vietato di lasciare il suo paese, di scrivere e dirigere film, di rapportarsi con i media internazionali per almeno vent’anni. L’aneddoto secondo cui il regista nascose in una torta una pennetta USB contenente This is not a film (2011) – clandestino documentario di denuncia –  per poi esportarla in Europa, per quanto risulti assurda, racchiude nella sua semplicità tutta la forza di resistenza che Panahi, con la potenza espressiva del suo cinema, oppone per contrastare le gabbie dell’autoritarismo iraniano. I tre volti sono infatti quelli di tre generazioni diverse di donne messe a confronto con la situazione cinematografica dell’Iran: la misteriosa ex showgirl che visse il periodo d’oro dell’intrattenimento prima della Rivoluzione Iraniana del 1979 (ma ora stigmatizzata dalla comunità), l’attrice del presente che, insieme al regista (l’attuale cinema iraniano), combatte per la libertà espressiva e la giovane ragazza che simboleggia la speranza di un futuro diverso, migliore.

L’escamotage metacinematografico (ormai marchio di fabbrica del regista) che ibrida realtà e finzione, confeziona un film tanto importante quanto originale; in perfetto equilibrio su una messa in scena che, paradossalmente, si mostra sotto le mentite spoglie della realtà, dando vita a una sorta di mockumentary/giallo/road-movie/film sociale sulla scia della teoria del Cinéma Vérité coniata da Edgar Morin («un cinema di autenticità totale, vero come un documentario ma col contenuto di un film romanzesco, cioè col contenuto della vita soggettiva»). La negazione della sospensione dell’incredulità è inevitabile con l’inserimento di riprese “documentaristiche” – scorci di vita quotidiana – che sembrano rubate dall’occhio impercettibile della cinepresa nell’automobile, i cui movimenti ridotti all’osso e un montaggio privo di artifici attivano un meccanismo spettatoriale di continua analisi della verosimiglianza e credibilità narrativa.
A dissipare i dubbi di veridicità sono gli incastri a tratti tragici, a tratti comici e rocamboleschi, di una sceneggiatura bizzarra, cinematograficamente riflessiva e socialmente riflettente, vincitrice al Festival di Cannes 2018. Bizzarra ma non troppo se si considerano i presupposti da cui si origina: la proibizione.

Il cinema di Panahi è un viaggiatore che cerca se stesso nelle terre sperdute dell’Iran, quelle stesse che lo hanno ripudiato, magici luoghi incontaminati dalla globalizzazione le cui superstizioni folkloristiche assumono, agli occhi di noi occidentali, un fascino surreale e grottesco. La forza del cinema di Panahi è questa, leggiadra riflessione sociale e antropologica sulla sua terra madre, omaggio ai volti palpabili e senza artifici che popolano la sua Persia contraddittoria. Colei che isola chi sogna e pensa diversamente. Un cinema che non nasce come militante, dal momento che vorrebbe solo raccontare storie di realtà quotidiana, ma lo diventa necessariamente nell’attimo esatto in cui viene generato.

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