Quando una figura carismatica del mondo dell’intrattenimento unisce le proprie forze a quelle di un gran numero di sostenitori e appassionati di storie fuori dall’ordinario, il risultato può rivelarsi sorprendente. In questo caso, la figura carismatica è la produttrice del film Sandra Oh, attrice canadese divenuta celebre per il ruolo di Cristina Yang nella serie televisiva Grey’s Anatomy, i mecenati sono tutti gli utenti che hanno contribuito con generose donazioni tramite la piattaforma di crowdfunding Indiegogo, e il risultato è il lungometraggio animato Window Horses, diretto da Ann Marie Fleming nel 2016 e da pochissimo dichiarato vincitore del Platinum Grand Prize al Future Film Festival di Bologna. Il film usa un pretesto narrativo semplicissimo per raccontare qualcosa di molto più grande. Rosie Ming (doppiata dalla stessa Sandra Oh), aspirante poetessa che convive con i nonni materni a Vancouver, viene scelta per partecipare ad un festival internazionale di poesia nella città iraniana di Shiraz, iniziando un viaggio che la porterà alla scoperta di sé stessa e delle molteplici facce della poesia. Tale moltitudine di aspetti si nota già a livello grafico: più di 10 tra registi e animatori sono stati scelti per animare con i propri stili specifici segmenti del film, tutti legati alla recitazione delle poesie e alle storie che le circondano. Ai differenti stili di disegno e animazione corrispondono vari stili di poesia. Come per registi e animatori infatti, anche diversi poeti sono stati convocati per diversificare la rappresentazione artistica nel film.

Questa caratteristica di Window Horses ha generato molto plauso, ma ha spesso contribuito a mettere in ombra la veste grafica principale del film, che ha comunque elementi interessanti da offrire. Il più significativo è il character design della protagonista Rosie: in mezzo ai personaggi che la circondano, tutti dotati di caratteristiche fisiche ben definite, la ragazza spicca “in negativo”. Pelle totalmente bianca, busto e arti che sono semplici linee tracciate sullo sfondo e volto ovale senza lineamenti (occhi a parte) e privo di bocca, che viene disegnata e animata solo durante i dialoghi in cui Rosie è coinvolta; tutte caratteristiche che sembrano inadatte alla protagonista di un racconto, ma che in realtà sono perfettamente funzionali al carattere del personaggio e al suo ruolo nella trama. La testa di Rosie ha infatti dimensioni del tutto in linea con quelle di qualunque altro personaggio del film; sul suo corpo filiforme risulta però decisamente sproporzionata, e questo costringe lo spettatore a focalizzarsi su di essa, rendendo così l’aspirante poetessa un simbolo della preminenza della mente sul corpo, coerentemente con il suo status di artista.

I suoi lineamenti anonimi sono inoltre in linea con le origini del personaggio, che all’inizio del film sono sconosciute sia agli spettatori che alla stessa Rosie, inconsapevole di molti eventi avvenuti alla sua famiglia. Viaggio alla scoperta della poesia quindi, ma anche alla scoperta della propria identità, che il film ci svela volta per volta attraverso numerosi flashback, anch’essi disegnati/animati secondo la regola degli stili multipli. Data la semplicità del volto di Rosie, risulta impossibile definirne l’origine iraniana fin quando non è lei a parlarne, ma è da quel momento che nella storia inizia ad infiltrarsi la Storia: tramite i racconti dei molti personaggi assistiamo a momenti fondamentali del Novecento iraniano, quali la Rivoluzione Islamica (1979) e la guerra contro l’Iraq (1980-1988), e internazionale, come la protesta di piazza Tienanmen avvenuta in Cina nel 1989.

Le verità che Rosie apprende nel corso dell’opera la mettono sempre più a dura prova. Il chador donatole dai nonni per il suo viaggio in Iran, si rivela fondamentale su più piani; già a livello di produzione, la sua capacità di coprire il corpo quasi integralmente, la monocromaticità e la forma molto semplice da disegnare si rivelano degli ottimi elementi per permettere di risparmiare sulle animazioni. Se scendiamo a livello diegetico notiamo però la sua vera importanza: all’arrivo di Rosie a Shiraz, le viene fatto notare come il chador in Iran sia considerato un indumento eccessivamente occultatore, smontando quello che per molti occidentali è uno stereotipo negativo sulle costrizioni che avvengono nelle nazioni islamiche. Quel chador, che Rosie indossa durante tutte le rivelazioni che riceve nel corso della trama, finisce per accompagnarla anche nel suo momento più buio, quando sta per rinunciare ad esibirsi nella recitazione delle proprie poesie; ma le parenti appena ritrovate la convincono a rimettersi in gioco, facendole indossare un hijab molto più rivelatore e confortevole con il quale la rinvigorita poetessa giunge sul palco del festival a declamare il proprio lavoro. Ormai libera da ogni impedimento, Rosie si esibisce davanti a tutto il pubblico, tra il quale si nota anche Mehran, il padre che non vedeva da anni; con poesia e musica si chiude una storia che per la vastità di culture e forme della cultura che racconta e per le tematiche che rappresenta, appartenenti a tutta l’umanità (viaggio, affetti familiari, ricerca di sé), si può definire davvero universale. Universale, proprio come la poesia e la musica.

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