In occasione dell’Asian Film Festival di Bologna una serie di conferenze sulla storia del cinema di Taiwan.

Questa settimana è iniziata la quindicesima edizione dell’Asian Film Festival con sede presso il cinema Lumière di Bologna e negli spazi del DAMSLab in Piazzetta Pasolini.

L’evento nasce per far conoscere, agli appassionati e non, le tendenze e l’evoluzione delle diverse cinematografie asiatiche.

Il Festival si è aperto il 21 maggio con l’incontro, tenutosi nella sede del DAMS di via Barberia 4 in aula Cruciani, Il cinema taiwanese dagli anni 70 ad oggi, tenuto dal direttore del festival Antonio Temenini, il quale, per l’occasione ha introdotto e inaugurato il festival. Insieme a lui si sono avvicendati i due relatori dell’incontro: Stefano Locati, dottorando dell’Università IULM di Milano, e il regista taiwanese Lai Kuo An, autore di uno dei film più attesi in concorso: A Fish Out Of Water (vedi Programma sotto).

Il regista taiwanese Lai Kuo An, protagonista dell’incontro a Bologna (immagine presa da intervista su youtube)

Ogni edizione dell’Asian Film Festival, infatti, presenta un focus particolare su uno dei paesi asiatici in concorso. Quest’anno il focus è su Taiwan, nazione insulare resasi indipendente nel 1990 dalla Cina. La storia del cinema taiwanese segue, in parte, quella che è la storia generale del cinema cinese, ma al suo interno si caratterizza, infatti, per alcuni filoni che ne determinano l’originalità nel panorama asiatico.

Tutto inizia negli anni 70 dove si sviluppano 3 correnti del cinema popolare taiwanese:

  • Realismo “sano” del produttore  Gong Hong;
  • Film sulla vita urbana e borghese  nei film di Bai Jing-Rui;
  • Commedia romantiche e sentimentali trasposte dai romanzi di Qiong Yao;

Ovviamente il cinema taiwanese di quegli anni è molto vario e comprende anche generi popolari come i film di arti marziali (quasi tutti imitazioni di film di Bruce Lee) e musical, ma questi tre sono i generi che presentano una maggior riconoscibilità. E poi è da queste tre che si svilupperà poi la new wave taiwanese degli anni 80.

Per quanto riguarda la prima corrente, questa nasce all’interno della CMCP, casa di produzione cinematografica statale, dove viene assunto come generale manager un giovane produttore chiamato Gong Hong. Questo, prendendo spunto dal neorealismo italiano, decide che è l’ora di innovare il cinema asiatico e comincia a produrre film come Oyster Girl e Beautiful Duckling, entrambi ambientati nelle campagne taiwanesi e a colori (prima di allora non ne erano mai stati realizzati all’interno del territorio cinese). Il filone a cui appartengono tali film viene ribattezzato “realismo sano” in quanto, pur partendo dal neorealismo, non hanno quell’aspetto sociale e politico tipico dei film italiani. Pur partendo dalla descrizione delle classi più umili (protagonisti sono giovani contadini e allevatori) non mirano a criticare la società (non avrebbero potuto, era pur sempre una casa di produzione statale all’interno di un regime cinese) ma ad intrattenere. Le storie trattano quasi sempre una vicenda sentimentale e hanno un lieto fine. In tutto questo vie era dietro una certa propaganda politica: lo scopo era quello di mostrare una nazione che lavora duramente ma con gioia. Questi film ebbero molto successo all’epoca.

All’interno della scuola del CMCP sorsero però alcune voci fuori dal coro: uno di questi fu il regista Bang Jing-Rui, il quale si era formato fuori dal proprio paese, in Italia (fu il primo studente cinese ad essere iscritto al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma). All’interno del CMCP, dunque, Bang Jing-Rui dirige Lovely Seventeen, suo primo film di successo, il quale mostra una poetica tutta sua. Le sue storie sono ambientate prevalentemente in città (nella capitale Taipei) e mostrano la classe medio-borghese con tutte le sue contraddizioni e problematiche esistenziali. In particolare vengono mostrate le difficoltà dei rapporti sociali. Il film all’inizio subisce una certa censura, vengono tagliate alcune scene ma in generale ottiene un discreto successo. Il suo film successivo, Home Sweet Home, due storie parallele di coppie all’estero che decidono di tornare a Taipei ed affrontare una realtà a cui non sono più abituati.
Da qui si può intuire come gli obiettivi di Jing-Rui siano più autoriali e meno commerciali di quelli di Gong Hong. Il suo stile sarà fondamentale per la svolta new wave degli anni 80.

La terza corrente di film taiwanesi del periodo è quella più “commerciale”: l’ascesa dei film romantico-letterari, in particolare quelli tratti dai romanzi della scrittrice Qiang Yao. Il successo di tali romanzi, infatti, è così grande che le trasposizioni dai romanzi diventano un vero e proprio genere a parte. Esempi tipici di questa corrente sono i film Four Loves e My Dream Boat, quest’ultimo co-prodotto a Hong Kong, il che dimostra il successo che tali film avevano anche al di fuori dell’isola. Via via si creano sempre più film con storie simili a quelle della Yao, una struttura narrativa molto semplice e ripetitiva: quasi sempre le protagoniste sono giovani donne emancipate e autonome (in questo la cinematografia taiwanese si dimostrava molto avanti rispetto a quella di altri paesi, non solo asiatici) divise tra il seguire le norme tradizionali e salvaguardare la propria indipendenza. Si tratta di film che ebbero un forte impatto sulla cultura dell’epoca. La rappresentazione della famiglia è quasi sempre matriarcale, con personaggi femminili forti e padri quasi sempre assenti.

Finita questa presentazione generale del cinema taiwanese degli anni 70, la parola passa al regista Lai Kuo An il quale esordisce parlando dell’importanza che tali film ebbero anche nei decenni successivi, un’eredità che lega lui e gli altri giovani registi taiwanesi a questa tradizione. Parlare della cinematografia taiwanese, infatti, è soprattutto parlare dei cambiamenti sociali che sono avvenuti nell’isola nei decenni e i suoi mutamenti antropologici.

A partire dagli ultimi anni 70 il cinema taiwanese è già più sviluppato rispetto alle altre cinematografie cinesi, di pari passo con lo sviluppo economico e politico dell’isola che poterà, in seguito, a voler differenziarsi dal cinema “continentale” asiatico e cercare una propria identità maggiore. Il regista ricorda, inoltre, come questi film romantici e sociali, pur partendo da premesse commerciali, avevano un impatto incredibile negli spettatori, qualcosa che si fa fatica a trovare nel cinema d’oggi (taiwanese e non). L’aspetto “realistico” e sociologico  di tali film porterà poi alla new wave taiwanese degli anni 80 il quale fu una vera e propria esplosione di autori nativi dell’isola, ciascuno con una propria poetica e stile.

Pur partendo da un concetto di autorialità molto forte, però, il regista ricorda alcuni aspetti comuni della new wave degli anni 80: un realismo spiccato delle situazioni e dei personaggi ma con elementi stilistici innovativi e di rottura a livello di storytelling, che dimostrano una certa voglia di sperimentare. Va detto che in questo periodo si hanno anche molti incentivi per la produzione di film di esordienti che andrà avanti fino ai primi anni 2000 (importanza, dunque, delle case di produzioni statali in questo senso, anche qui il regista fa notare come, negli ultimi tempi, le cose siano cambiate, ora c’è meno sperimentalismo).

La new wave, dunque, è frutto di un cambiamento economico e culturale che segue, di pari passo, la storia del paese, con una riflessione sulla propria storia e sul rapporto conflittuale con il regime cinese. Non a caso un genere che ha molto successo in questo periodo è il dramma storico “revisionista” in cui si parla del passato ma da un altro punto di vista, non più quello del regime ma quello più “locale” dell’isola.

Fino al periodo 1984-1985 dunque, si nota un grande fermento a livello cinematografico, nell’isola. Poi (secondo le affermazioni del regista) si ha una certo “ritorno al passato” (dovuto probabilmente alle pressioni del regime cinese). Dopo una prima fase di sperimentalismo narrativo e registico, infatti i film cominciano a tornare più “ortodossi” e lineari (primi piani, telecamera fissa, campi lunghi…) pur mantenendo, come tematiche principali, l’attenzione per la storia del proprio paese e la psicologia dei personaggi.

A tal proposito va fatto notare come alcuni registi taiwanesi cominciano, in questi anni, a ricevere importanti premi anche al di fuori dell’Asia (uno su tutti, il regista Hou Hsiao-hsien). Una ribalta internazionale che sicuramente ha aiutato ad incentivare questa cinematografia e a fare in modo che non venisse troppo censurata.

Il regista taiwanese Hou Hsiao-hsien, maggiore esponente della new wave taiwanese (fonte: creative commons)

“I registi di questo periodo hanno una concezione molto autoriale del proprio lavoro, dovuta probabilmente al fatto che i loro studi sono avvenuti al di fuori dell’isola, in contesti europei soprattutto; non vogliono semplicemente raccontare storie, vogliono incidere sulla società e sul loro tempo; questo tipo di stile ha avuto incidenza sulla società stessa; da queste caratteristiche del cinema taiwanese si può vedere  senza dubbio l’influenza del neorealismo italiano: una ricerca costante del reale inteso come verosimile. Sono film “sinceri”. Gli ultimi anni, soprattutto dopo l’avvento del digitale, hanno cambiato questa concezione del cinema, si fa fatica a fare film del genere oggi sebbene la tecnica e gli effetti speciali siano sicuramente migliorati; diciamo che c’è la tecnica è diventata più facile, ma il racconto più difficile; bisogna poi aggiungere il fatto che oggi il cinema taiwanese è molto più influenzato dal restante cinema asiatico e tende ad amalgamarsi ad esso, mentre allora si cercava un’identità precisa; per noi autori rimane però ancora importante ribadire il NOSTRO punto di vista, anche se contaminato da altre cinematografie” (discorso finale del regista Lai Kuo An alla fine dell’incontro).

L’Asian Film Festival proseguirà a Bologna fino al 28 maggio. Qui il Programma completo delle proiezioni e delle prossime conferenze.

Sicuramente un ottimo modo per conoscere cinematografie e registi di paesi lontani dai soliti circuiti cinematografici “occidentali”.

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