Inchiesta, introspezione, colpi di scena, crimine, storia. Prosegue la serie antologica dedicata ai crimini più emblematici d’America. Dopo la vicenda su O.J.Simpson, American Crime Story racconta l’assassinio del noto stilista Gianni Versace. Icona del mondo Gay, Versace viveva a Miami con il suo compagno quando, nel 1997, fu assassinato da Andrew Cunanan, un giovane omosessuale disturbato e pluriomicida.

Tra ville sfarzose, vestiti eleganti, sole cocente e locali glamour si consuma uno degli omicidi più sconvolgenti degli Stati Uniti. Il delitto Versace funge come punto di partenza per raccontare la vita omossessuale del paese negli anni Novanta, attraverso il punto di vista dell’assassino. La serie infatti è totalmente incentrata su Andrew Cunanan, sulla sua prospettiva, sul suo background e sulla sua evoluzione: da ragazzo brillante e pieno di risorse a pluriomicida a sangue freddo. Una ricostruzione che più che essere d’inchiesta, come fu la prima stagione dedicata a O.J. Simpson, è un’analisi interiore, un viaggio nell’abisso oscuro del crimine. Un declino psicologico messo in scena attraverso una narrazione non lineare che, puntata dopo puntata, giustifica e motiva la fragile emotività dell’assassino. Un lavoro enorme, elaborato e che, nonostante in molti casi forzato e alcuni punti siano “di finzione”, presenta un punto di vista interiore molto forte.

Se facciamo un paragone tra la prima e la seconda stagione, troviamo un cambiamento enorme di prospettiva. In quest’ultima, Versace la celebrità è solo l’incipit per raccontare il punto di vista del carnefice. Nella prima, O.J. Simpson era il protagonista assoluto. Il dibattito in aula, le macchinazioni nei tribunali e il dislivello tra bianchi e neri. Un’ottica differente che si rivela vincente per L’Assassinio di Gianni Versace. Le due stagioni mostrano una costruzione della vicenda che parte dagli estremi ma che, alla fine, racconta in maniera metaforica la società americana . I conflitti razziali nella prima stagione e nella seconda il mondo omosessuale. Minoranze che vengono esposte mostrando tutta la crudeltà della società che, ancora ottusa e bigotta, fa fatica a cambiare nonostante il rinnovamento sia sotto gli occhi di tutti. Tematiche molto attuali e che, forse, ora si stanno risolvendo. Tuttavia, sono miglioramenti forzati da vicende sanguinose e mai da una normale crescita mentale della società. La tolleranza è sempre stata mediata da vicende criminose.

L’omofobia è il tema portante di questa seconda stagione. Andrew Cunanan è un gay represso che mente a tutti pur di sopravvivere. Si muove in un mondo che odia gli omosessuali e perciò vive in un paese che lo odia e che lo disprezza. Un emarginato che vuole semplicemente vivere senza doversi nascondere dagli sguardi di spregio delle persone. Personaggio dalla labile psicologia non accetta questa condizione perché vanitoso e, per certi versi, esibizionista. Costretto a nascondere la sua condizione e, perciò, svilito e represso, Cunanan è costretto ad opprimere il proprio se’ per andare incontro al volere degli altri.  È una persona fragile che è alla ricerca del proprio posto nel mondo e che non riesce ad accettarsi per quello che è. Una figura disturbata e fortemente divisa, che vive un conflitto interiore. Una perdita di controllo e di lucidità che fa scattare in lui una reazione a catena.

Dal punto di vista della messinscena, come già detto, viene privilegiata una narrazione non-lineare con continui e repentini salti cronologici con una struttura a puzzle. Frammento per frammento per portare all’ultimo finale atto quando viene braccato l’assassino. Lo stile di regia rimane invariato per entrambe le stagioni: sporco, ruvido, con camera a mano e con una forma espressiva documentaristica.

Per quanto riguarda il cast attoriale, c’è un po’ di delusione per gli attori di nazionalità latina chiamati ad interpretare personaggi italiani. La somiglianza con gli “originali” c’è ma, dal punto di vista delle interpretazioni non sono stati eccelsi e, secondo il mio parere, sono risultati ‘legnosi’. Vero che hanno parti complessive brevi e perciò meno spazio per emergere in quanto comprimari di lusso. Bravo, Darren Criss nel ruolo dell’assassino. Una prova attoriale forte, sicura e incentrata su sguardi e sulla fisicità.

L’assassinio di Gianni Versace – American Crime Story si conferma un’ottima seconda stagione. Diversa ma analoga per struttura, si mantiene sul pregevole livello della precedente (anche se complessivamente recitata nettamente meglio di quest’ultima). Un viaggio nella psiche del carnefice non facile da mettere in scena che porta alla luce un altro grande pregiudizio americano (e non solo): l’omofobia. Una crime-story che intrattiene e fa riflettere. Molti forse si aspettavano che fosse incentrata su Versace ma, alla fine, è stato più interessante capire le introspezioni dell’assassino, anche perché non essendo una serie biografica, questa prospettiva è stata più idonea a veicolare tematiche universali e altamente contemporanee.

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