Reinhard Heydrich è un nome che probabilmente non dirà nulla ai più, eppure fu uno dei più pericolosi e sanguinari gerarchi del Terzo Reich, perché «il potere ha sempre bisogno di uomini nell’ombra». Per volere di Himmler, Heydrich divenne leader della divisione di controspionaggio delle SS e principale fautore della pulizia etnica degli ebrei in Boemia e Moravia, nonché uno dei più motivati promotori della cosiddetta “soluzione finale”.

Tratto dal romanzo HHhH di Laurent Binet, L’uomo dal cuore di ferro di Cédric Jimenez racconta l’ascesa di Heydrich ai vertici della Germania nazista e la lotta che la resistenza cecoslovacca intraprese contro di lui.

L’uomo dal cuore di ferro e Il boia di Praga sono solo due dei soprannomi che derivano dalla fama di Heydrich, che da ex soldato della marina tedesca congedato con disonore diviene l’uomo di fiducia di Himmler e in seguito, nel 1941, governatore del Protettorato di Boemia e Moravia, dove perpetra numerose e violente stragi in interi villaggi. Di pari passo all’ascesa di Heydrich, la resistenza corre ai ripari e alcuni esponenti di Praga organizzano una missione per eliminare il nemico, l’Operazione Anthropoid; grazie al coraggio e al sacrificio di Jozef Gabcik Jan Kubis, due giovani soldati paracadutisti, il nazista viene ferito gravemente in un attentato dinamitardo, il 24 maggio 1942. Heydrich morirà di lì a poco, mentre i due militari verranno braccati all’interno di una chiesa e preferiranno suicidarsi piuttosto che cadere sotto il fuoco nemico.

Nonostante la comprensibile necessità di veridicità storica – impeccabile dal punto di vista ambientale ed estetico – Jimenez compie una scelta infelice e divide il film in due parti nettamente separate: la prima si concentra alquanto superficialmente sulla vita e la carriera di Heydrich, la seconda sulla messa in atto della strategia offensiva dei partigiani, coinvolgendo una serie di alleati di Gabcik e Kubis. Ne deriva una narrazione disomogenea e sbilanciata, in cui la seconda parte del film predomina sulla prima, superandola in durata e mostrando inutili e dettagliate lungaggini francamente fini a sé stesse, con l’aggiunta di parentesi sentimentali e personaggi dimenticabili. Inevitabilmente, è dunque il capitolo dedicato esclusivamente ad Heydrich, che dovrebbe essere il protagonista della vicenda, a soffrirne. Ne deriva una visione raffazzonata, scialba e approssimativa che poteva invece rivelare una chiave di lettura più interessante; Reinhard è infatti inizialmente descritto come un giovane spavaldo ed emotivo, in seguito come un leader spietato e senza scrupoli, ma anche come un padre di famiglia molto presente, un abile spadaccino, un amante della musica, caratteristiche che aleggiano in poco più di quaranta minuti di pellicola, senza alcun approfondimento. Un vero spreco per lo spigoloso Jason Clark, la cui performance, nonostante l’impegno, non ha modo di decollare.

Un’altra occasione persa è la descrizione del rapporto tra il gerarca e la moglie Lina – una gelida Rosamund Pike che in pochi minuti monopolizza la scena – nazista radicale, amica di Himmler, profondamente persuasa che il Führer salverà la Germania e la riporterà ai sui antichi splendori, nonché di fatto promotrice della carriera del marito. Tra i due si percepisce inizialmente una complicità solida, data da una condivisione di obiettivi e visioni, e in seguito un allontanamento, ma nulla di tutto ciò viene esplicato o in qualche modo valorizzato. Trattasi anche in questo caso, purtroppo, di approssimazione e pressapochismo.

Alla fine della visione viene da chiedersi per quale motivo non sia stata fatta una scelta unitaria e coerente, puntando direttamente sulla missione della resistenza e valorizzando le figure dei due eroi patriottici, oppure concentrandosi totalmente sulla figura di Heydrich, colui che dà il titolo alla pellicola. L’uomo dal cuore di ferro, in conclusione, si rivela un film le cui sostanziose potenzialità sono state a dir poco ignorate: un vero peccato.

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