Diana Prince torna in un nuovissimo lungometraggio dopo l’exploit del precedente capitolo con Wonder Woman 1984. Abbandonati gli anni della Prima Guerra Mondiale, la nostra principessa amazzone compie un salto di decade con questa nuova avventura ambientata negli anni colorati e pop degli Eighty. Squadra che vince non si cambia e alla regia ritroviamo Patty Jenkins e Gal Godot nel ruolo di protagonista. Una pellicola che si concentra sui sogni, quelli puri, genuini, da coltivare passo dopo passo, con sacrifici. La vita è bella ma può migliorare attraverso il lavoro.

1984, il mondo sta cambiando radicalmente, il ritmo è frenetico, mondano, colorato e dominato dai mass media. In tv, in onda, domina lo spot dell’imprenditore Maxwell Lord (Pedro Pascal) che promette una vita migliore investendo in giacimenti petroliferi. Diana invece lavora come curatrice in un museo come esperta di reperti antichi e diventa amica di una nuova collega appena assunta, Barbara Minerva. Quest’ultima impacciata e con poca autostima viene costantemente derisa e poco calcolata dai suoi colleghi, perciò ammira e sogna di essere apprezzata come Diana. Vista la sua psiche, viene manipolata dal truffatore che la seduce per mettere le mani su un reperto archeologico in grado di esaudire ogni desiderio… una sorta di genio che però necessita di sacrifici.

Il cambio di ambientazione confà alla pellicola e al suo personaggio molto glamour e dal fisico statuario. Colorato, veloce e pregno di importanti cambiamenti radicali al tessuto sociale. Le abitudini stanno cambiando nel profondo e così anche il cuore della gente, che si è lasciata alle spalle le varie guerre della prima metà del Novecento, sta mutando e diventando egoista e concentrata più su sé stessa che sulla comunità. L’unico pesce fuor d’acqua è proprio Diana che non è mai riuscita del tutto ad integrarsi nella società; vive sola ed è dedita al museo e al suo ruolo di paladina della giustizia con il mando di Wonder Woman. Svetta rapine (spettacolare e divertentissima la scena del centro commerciale) ma non ha una vita sociale. Rimugina ancora sul suo amore perduto, Steve Trevor (Chris Pine). La sua vita cambia improvvisamente quando diventa amica di Barbara e, attraverso il “genio”, riporta in vita il suo amato. Tuttavia, il contatto con questo potente manufatto porta la stessa Minerva a mutare e diventare una sorta di nemesi, una versione differente e di ugual potenza di Diana. Quindi da “sfigata” diventa glamur e apprezzata tanto quanto Diana. La situazione precipita quando il reperto archeologico entra in possesso dell’imprenditore Maxwell Lord che in preda al fallimento l’utilizza per acquistare sempre più potere.

La pellicola ci offre ben due villain importanti che fanno squadra contro Diana e hanno due archi simili. Tuttavia entrambi evolvono in una maniera prevedibile che non porta nulla di interessante o entusiasmante. Se nel precedente capitolo, il cattivo veniva svelato nell’ultimo atto e c’era un importante ribaltamento di fronte, questo secondo film ci porta sin da subito nell’ottica dei villain. Non ci si nasconde dietro la macchina bellica e la pellicola offre una prospettiva differente, portando a significative parti recitative per i due antagonisti. Tutti e due possono essere definite due vittime della nuova società egoista ed entrambi covano del desiderio di rivalsa. Barbara Minerva, da goffa e sbeffeggiata dai colleghi, diventa popolare, osannata dai colleghi e la cosa inizia a piacergli e a condizionamenti psicologici. Questo suo cambiamento è in realtà pura apparenza, un’illusioni, ma le costanti attenzioni, minano la sua fragile psiche. Anziché cambiare da dentro e lottare per dimostrare di essere importante, viene sedotta da questa scorciatoia improvvisa che la condiziona e la rende cieca ed egoista. Vuole “vendetta” verso coloro con l’hanno trattata male e si scontra con Diana, che da amica diventa nemica, poiché vuole farla ritornare misera e anonima com’era precedentemente. Perciò, ambisce ad essere sempre più forte per rimanere al centro dell’attenzione e si trasforma in una sorta di Ghepardo umano, Cheetah. Dall’animo fragile e condizionabile, viene manipolata da Maxwell Lord che ha una personalità forte e la fa diventare sua alleata. Lui è il vero villain principale del film ed è colui che cova un desiderio di rivalsa molto forte e che ha radici profonde. Il lungometraggio fornisce il suo background passato fatto di truffe, di sogni irrealizzati, di fallimenti. Tutto ciò l’ha portato a diventare una persona meschina, pronta a tutto per ottenere il successo, il potere, e perciò manipola ogni persona nel suo campo visivo, “seducendo” la gente con i desideri. Quindi facendo diventare l’umanità egoista e cattiva. Gioca sulla fatalità delle persone, su sentimenti altamente condizionabili che influiscono sulla psiche della gente. La stessa Diana rischia di soccombere a tali poteri a causa di Steve Trevor che torna dal regno dei morti. La sua presenza aiuta Diana a tornare a vivere, ma allo stesso tempo, funge da guida, da faro genuino votato al bene comune. Una persona vecchia scuola, che ha combattuto la guerra, poco incline all’egoismo, che mira al bene comune, che si è sacrificato per una causa importante. Steve diventa il simulacro di tutti quei valori positivi che fanno da contrappunto al male intrinseco di ogni essere umano. Sprona, Diana a lottare per il bene dell’umanità e si sacrifica nuovamente. Un addio definitivo in cui i due possono, finalmente, salutarsi a dovere. Quindi lo scontro diventa manipolazione/accettazione, verità/menzogna, in cui le persone devono accettare sé stesse per quelle che sono senza intraprendere scorciatoie che si rivelano pie illusioni. La vita va migliorata attraverso i sacrifici, il lavoro e attraverso tutte quelle cose belle che ci sono, che appagano e riempiono la vita di una persona.

Questa seconda pellicola standalone dedicata all’amazzone si rivela carina, ma al di sotto del precedente capitolo che si focalizzava su un’avventura bellica mozzafiato che cercava di smontare svariati stereotipi della donna. Questo film si concentra prevalentemente sulla spettacolarità, abbandonando, ogni seme femminista intrinseco al personaggio. Le scene d’azione sono superiori, ma tali migliorie non vanno di pari passo con un’evoluzione congrua e interessante per quanto riguarda la psiche dei personaggi principali. Manca il trasporto, l’empatia e si rivela squilibrata nella scrittura. La pellicola non colpisce, ma ha il pregio di portare ad un finale emozionante, spettacolare e pieno di morale. Sotto certi aspetti la Wonder Woman di questo secondo capitolo sta mutando in una sorta di Superman al femminile in quanto diventa un simbolo di pace, di genuinità. Un faro, una guida verso tutti quei valori positivi che la società deve perseverare. Guardabile ma con poche palpitazioni.

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