A metà fra fiaba e documentario un’opera sui generis che parla di immigrazione e famiglia.

 

C’è una misteriosa malattia che colpisce i ragazzi dagli 8 ai 15 anni figli di immigrati irregolari in Svezia. In particolare quelli provenienti dall’Est Europa e dai paesi dell’Ex-Jugoslavia. Per quanto possa sembrare incredibile viene chiamata uppgivenhetssyndrom  (Sindrome della Rassegnazione, tradotta in italiano).

Si tratta di una sindrome culturale (simile ad un’isteria collettiva) i cui sintomi più evidenti sono quelli di un coma temporaneo in cui le funzioni vitali dei bambini rimangono sospese, come se fossero assuefatti dallo stress a cui è sottoposta la condizione della propria famiglia (anche per questo la Sindrome viene anche chiamata “della Bella Addormentata“).

Molti sono gli interrogativi e i dubbi dietro questa Sindrome, ancora poco studiata anche per il pregiudizio insito per cui sarebbe solo una scusa, da parte delle famiglie, per ottenere la domanda di asilo (anche se i fatti hanno dimostrato che il coma può durare anche dopo l’acquisizione di tale documento).

La regista svizzera, di origini kosovare Dea Gijnovci, riprendendo quelli che sono i temi tipici della sua filmografia (si veda, ad esempio, Sans Le Kosovo), decide di trattare questo argomento seguendo la vicenda di una famiglia di rifugiati rom kosovari in Svezia le cui due figlie femmine soffrono, per l’appunto, di questa Sindrome. Questo da quando alla famiglia è stato negato il permesso di soggiorno.

Già in questo senso la pellicola risulta degna d’attenzione proprio per la tematica scelta, inusuale ma collegata a tematiche sociali sempre attuali. Ma ancora più interessante è il modo in cui la regista sceglie di rappresentare tale tematica.
Nonostante la vicenda delle due ragazze in coma sia il tema principale della storia, il punto di vista scelto è quello del fratello minore Furkhan, un bambino curioso e vivace che passa le sue giornate rovistando fra le discariche e le auto-rimesse in cerca di apparecchiature abbandonate. Il suo obiettivo, infatti, è quello di costruire una navicella spaziale su cui partire per lasciarsi alle spalle la sua situazione famigliare.

A questo punto la pellicola esce dagli schemi e stilemi classici del documentario per immergersi nella fiction fantascientifica d’ispirazione spielberghiana. La telecamera segue le peripezie del giovane protagonista con uno sguardo distaccato ma per nulla ironico, credendo fermamente nel suo progetto, quasi fosse l’unica soluzione per risolvere tutti i suoi problemi famigliari.

Il tono poetico e fiabesco della vicenda aiuta a rendere più fruibile e meno pesante la vicenda narrata e a suscitare una certa empatia nei confronti del suo piccolo protagonista.

E tuttavia questa “fiaba” viene inserita in un contesto molto realistico e contemporaneo per cui ad un certo punto non si capisce dove finisca la realtà e la fantasia infantile. Certo è che il racconto che ci viene mostrato è senza dubbio molto reale e per nulla edulcorante rispetto a quella che è la situazione famigliare di Furkhan, anche se il finale sembra rilasciare un lieto fine positivo per lui e la sua famiglia.

Un’opera da vedere e più che mai attuale, che parla di un tema locale che si collega però a tematiche universali, e per questo ben rappresentate da un punto di vista semplice come quello di un bambino che sogna di andare lontano “verso l’infinito e oltre”.

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