Il documentario di Valentina Pedicini sulla comunità dei monaci shaolin cristiani inaugura il Biografilm 2020.
Torna anche quest’anno il Biografilm Festival – International Celebration Of Lives con il suo ricco programma di documentari e film provenienti da tutto il mondo. Si parte subito con il botto grazie al documentario Faith a cura della regista Valentina Pedicini, destinato subito a far discutere.
Il film (già presentato in occasione dell’ultima Berlin Critic’s Week, evento che precede ogni anno il Festival del cinema di Berlino), è ambientato all’interno della comunità dei Guerrieri della Luce (o Monaci Guardiani del Tempo, come si autodefiniscono) ex-artisti marziali di fede cristiana che hanno scelto uno stile di vita monastico tra le colline marchigiane, a Montelupone (MC).
Nata nel 1998, da un’idea del maestro Corrado Lazzarini (5° dan di kung-fu wushu), la comunità vive in maniera autosufficiente dedicandosi a lavori artigianali e agricoli e praticando in maniera costante le arti marziali, secondo uno stile di vita che ricorda quello dei monaci shaolin in Cina. ma la loro particolarità è il fatto di essere ispirati da una sorta di “missione salvifica” di stampo prettamente cristiano. Il loro scopo è infatti quello di allenarsi in preparazione della “battaglia finale” che avverrà durante l’Apocalisse.
Nel frattempo la loro vita è scandita da riti quotidiani e da una rigida disciplina che li avvicina molto all’idea di una vera e propria setta. Più che ad una religione in particolare, infatti, si tratta di una vero e proprio culto sincretico in cui sono più i gesti e le azioni che non la fede in sé (nonostante il titolo) a guidare le persone presenti all’interno della comunità. A questo punto la domanda che fa da fil rouge a tutta la narrazione è che cosa potrebbe spingere qualcuno ad imbracciare questo stile di vita in cui sono più le rinunce che non le soddisfazioni.
E a questa domanda la regista Valentina Pedicini cerca una risposta semplicemente mettendosi “a lato” ed esplorando passo per passo la routine di queste persone. una routine fatta da allenamenti, momenti intimi e personali, riunioni, preghiere, ma anche feste e balli sfrenati sotto una musica tecno che rimbomba in maniera ossessiva e seducente, come una specie di rito dionisiaco.
Il tutto con un uso veramente particolare del bianco e nero (nelle sue varie gradazioni) che serve a decontestualizzare il racconto rendendo la vicenda più “universale”, ma soprattutto per far capire che siamo veramente dentro un mondo “altro”, al di fuori della realtà quotidiana. Si tratta di un’immersione a 360 gradi all’interno di una vera e propria “famiglia” particolare in cui i momenti di gioia e felicità si alternano a quelli di malinconia e “disfunzionalità”. Non si tratta di un documentario facile da seguire. molti sono i momenti di puro silenzio in cui apparentemente non accade nulla ma, d’altronde, ricalca esattamente la vita di persone tutto sommato comuni, con i loro momenti alti e bassi.
Viceversa sono molti i primi piani e le inquadrature ravvicinate in cui da pochi gesti (e gestualità) è possibile capire la psicologia delle persone coinvolte. Si tratta di uno studio antropologico che cerca di capire fino a che punto una persona è disposta a spingersi in ciò a cui crede.
Le sensazioni provate sono dunque molteplici, e spesso contraddittorie, ed è difficile dare un giudizio finale sulle motivazioni che stanno dietro la “filosofia di vita” di queste persone. Si possono solo accettare per quello che sono, seguendo passo per passo le giornate di questi “guerrieri” e lasciandosi guidare dalla loro fede e dalle loro attività.
Si tratta dunque di un’opera di stampo “verista”, questo film di Valentina Pedicini, che serve a far luce su una comunità di persone che volutamente si sono isolate dal resto del mondo ma che hanno anche bisogni e necessità molto “umane”, e che vivono la loro scelta in maniera molto intensa ma, nonostante le apparenze, anche molto gioiosa. Questa dualità viene evidenziata molto bene dalla regista restituendo la testimonianza di una società sfaccettata e ricca, nonostante al suo interno le differenze vengano sistematicamente annullate al suo interno in nome dell’uguaglianza fra i vari membri (anche se permane una certa preminenza del “maestro” rispetto ai propri allievi). E per questi motivi risulta un’opera interessante nel suo genere.
Rimane comunque la volontà di rendere “narrativo” il racconto tramite il percorso di formazione di alcuni personaggi (Gabriele soprattutto, ma anche Laura) che hanno un percorso esistenziale particolare all’interno della comunità. Un racconto che potrebbe tranquillamente essere ricalcato sul modello narrativo di un film d’arti marziali (soprattutto per quanto riguarda il rapporto allievo-maestro), ma che si esprime sempre in una “normale” vita di comunità, come semplice rapporto famigliare di routine. Anche in questo caso prevale più l’aspetto documentaristico e d’indagine sociale, girato in maniera quasi simbiotica e camaleontica, come un occhio invisibile che si aggira dentro questo “tempio” in mezzo alle colline marchigiane.
Il ballo finale sotto la luce della luna rappresenta il momento finale e la fine di questo viaggio particolare all’interno di una comunità altrettanto speciale, lasciando più domande che non risposte. Si tratta, dunque, di un’opera che intenzionalmente vuole far discutere ma senza imporre alcun limite alla riflessione che porta con sé. E che riesce a catturare l’attenzione dello spettatore grazie al suo stile ipnotico e metafisico.
Un film dallo stile e dalla tematica profondamente “manichea”, che rompe fin da subito gli schemi e che, forse proprio per questo motivo, è ottima per far immergere fin da subito lo spettatore nel vivo di questa edizione del festival, anch’essa (data l’eccezionalità del momento storico) anticonvenzionale rispetto a tutte le altre.
Scrivi