Un orologio, un uccello tatuato e delle nocche insanguinate di un uomo in attesa nei pressi della stazione in una notte di pioggia. Un ombrello bianco, un profilo malinconico, una borsa e delle sigarette di una donna che cerca qualcuno.

Diao Yinan introduce così i due protagonisti del suo nuovo film Il lago delle oche selvatiche. Zhou Zenong, ladro e assassino in fuga, sta attendendo che i suoi amici e sua moglie Shujun vengano a riprenderlo, con la speranza che la donna possa denunciarlo alla polizia e tenere per sè e il figlio la taglia che pende sulla testa del criminale. Liu Aiai è una “bagnante”, una prostituta che opera sulle rive del Lago delle oche selvatiche, incaricata da un amico e collega di Zenong di portarlo da loro.

Il regista ambienta Il lago delle oche selvatiche nelle periferie di Wuhan, dove vivono e agiscono personaggi problematici, disoccupati, bande criminali, prostitute. Lo fa ricreando spazi polverosi e vibranti, in cui le luci al neon e i contrasti luminosi ricordano i contrasti cromatici del noir in bianco e nero del passato, nella sua tensione tra luce e ombre, tra bene e male.

Il motore della storia è lo scontro tra bande in cui Zenong, appena uscito di prigione, si trova coinvolto e in cui perde la vita un suo compagno e, stavolta per mano dello stesso Zhou, un poliziotto. L’episodio è raccontato a Liu e al pubblico in un flashback, seguito dalla spiegazione delle iniziative prese dalla polizia nel cercare il fuggitivo, racconto dai toni leggermente caricaturali e ironici, in netto contrasto con la laconicità del tempo rappresentato.

Momenti di veloce umorismo sono presenti lungo tutta la pellicola. A questi si affiancano tagli ed espedienti di montaggio che rendono la camera da presa molto visibile, palesando l’artificiosità filmica. L’effetto di distacco dall’essenzialità e dall’oscurità degli episodi presenti spinge a vedere dall’esterno e quindi riflettere sulle situazioni e le condizioni in cui i protagonisti si muovono. Il montaggio contribuisce alla resa del movimento e le frequenti riprese in campo lungo mostrano al meglio il brulicare di individui e spazi diversi che colorano le periferie cinesi. Una scena memorabile quanto enigmatica è sicuramente quella della caccia e scontro tra un poliziotto e criminale in uno zoo: alle azioni sezionate dei due uomini, la regia alterna sguardi e movimenti animali, in un tappeto sonoro di versi e lamenti ferini amplificati e surreali. L’impressione è quella di trovarsi in un mondo costruito, immaginifico, scollegato dalla realtà, in cui a regnare sono regole antiche, ancestrali, animalesche, che portano entrambi gli avversari alla morte.

Yinan, abile nel creare momenti di sospensione e rallentamento percepito, crea una tensione che tiene agganciati alla visione.

La Wuhan del film sembra un artefatto: non siamo di fronte a una resa realistica a scopo di denuncia sociale, ma alla creazione di un iperrealismo che supera la verità divenendo metafora, quasi un sogno. Il lago delle oche selvatiche mostra il disfacimento progressivo di due bande di ladri e della polizia stessa, incapace e superficiale, negativa nella sua vacuità quanto i criminali che si prefigge di catturare (emblematico il momento in cui, riusciti nella loro impresa, con un cadavere ai loro piedi, i poliziotti si scattano una foto con il cellulare, orgogliosi delle loro gesta). E’ la dimostrazione del fallimento di valori e regole che si fondano su una gerarchia di violenza e potere di tipo patriarcale, in cui il più forte ha il controllo.

Inserite come pedine in una competizione e rivalità prettamente maschili, a uscire integre e a testa alta dalla vicenda saranno solo Aiai e Shujun, leali e comprensive tra loro fin dall’inizio. Le figure femminili chiudono la pellicola accompagnate da un sorriso (l’unico sincero di tutto il film) e un commento musicale di speranza. Il femminile mostrato come resiliente e tenace, affrancato da norme e legami ormai antiquati, deciso a migliorare il proprio futuro nonostante il passato che lo ha fino ad allora maltrattato.

La tensione tra giorno e notte, tra colori e oscurità, si ritrova anche nella scena finale: le due donne camminano verso la macchina da presa, verso un nuovo avvenire, e lo fanno in pieno giorno, mentre prima tutto si era mosso nella notte. Il futuro in queste periferie difficili allora sembra il risultato dialettico tra il maschile e il femminile, tra la crudezza, la violenza, il potere da una parte, la comprensione, la collaborazione e l’adattamento dall’altra: il risultato sono gli spiriti decisi e fiduciosi di Aiai e Shujun. Interessante da questo punto di vista risulta allora la traduzione più o meno letterale dell’originale titolo cinese del film: 南方车站的聚会 (“Nánfāng chēzhàn de jùhuì“), “Appuntamento alla stazione sud”, che restituisce l’idea dell’incontro tra due entità e di un momento circoscritto di ritrovo che terminerà in una distinzione nuova.

Ilaria Zaccariello

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