Tra i generi di punta del cinema italiano, il noir, in tutte le sue accezioni, non è certamente il primo a venire in mente e, anzi, è indubbio che lo spettatore possa affrontare una certa difficoltà nel ricordare qualche titolo esemplificativo. Naturalmente, se paragonata alla lunga e rinomata tradizione francese e americana, la cinematografia nostrana soffre di una certa inadeguatezza in tal senso. Eppure, questo filone dall’aleatoria definizione è apparso sui nostri schermi con pellicole di grande incisività e risonanza, basti pensare a Ossessione di Luchino Visconti (1943), ai film di denuncia di Elio Petri e Damiano Damiani negli anni Sessanta e soprattutto ai numerosi poliziotteschi firmati Fernando Di Leo o Umberto Lenzi. L’arrivo del nuovo millennio ci ha inoltre regalato perle quali Quo vadis, baby? di Gabriele Salvatores, Romanzo criminale di Michele Placido e Arrivederci amore, ciao di Michele Soavi.
Esempi indiscussi, ma purtroppo sporadici, come quelli appena citati non spiccano certamente all’interno di una cinematografia dominata dalla commedia e i drammi sentimentali ed è probabilmente per questa ragione che il noir non si è mai radicato nel nostro paese. E’ dunque ancora possibile, nel 2018, parlare di pellicole degne di nota in Italia? A quali caratteristiche dovrebbe rifarsi un film noir ai giorni nostri per dimostrarsi emblematico o quantomeno appetibile? Il critico cinematografico Americo Sbardella, in un suo articolo dedicato a questo genere, afferma:
Il noir allude sempre alla tragedia, ma alla “tragedia della modernità” le sue allusioni non sono mai metastoriche. Una società che “ha disciolto la dignità personale nel valore di scambio”, che sta smarrendo – o ha già smarrito – il senso del giusto e dell’ingiusto non può che generare mostri, soprattutto nelle sue metropoli. Il noir rifletterebbe tale situazione: dalla sua “verità” il suo grande potere fascinatorio1.
Utilizzando tale concetto come una sorta di linea guida, in questo approfondimento verranno analizzati e messi a paragone due titoli recenti che hanno riportato alla luce il noir italiano e che si sono contraddistinti per la loro eccellente fattura e originalità, I figli della notte di Andrea De Sica (2016) e La ragazza nella nebbia di Donato Carrisi (2017). Per entrambi, oltre a un esame delle vicende, verranno presi in considerazione gli aspetti in comune più significativi, come la costruzione psicologica di personaggi ambigui e la singolare scelta delle ambientazioni, nel profondo nord delle Alpi.
I figli della notte di Andrea De Sica
Il diciassettenne Giulio viene iscritto dalla madre a un prestigioso collegio per ragazzi di buona famiglia, “la classe dirigente del futuro” destinata all’apprendimento di marketing, economia e alta finanza. In un ambiente rigido e alienante, un’elegante struttura sperduta tra le montagne dove non sono concesse distrazioni e il nonnismo trionfa, Giulio fa amicizia con Edoardo, un ragazzo sveglio e dal carattere ribelle, a lui praticamente complementare. Un po’ per noia e un po’ per desiderio – letteralmente – di evasione, i due si dedicano alle fughe notturne e insieme scoprono un night club poco distante dalla scuola. Là Giulio conosce Elena, una giovane e bellissima prostituta russa, per la quale perde la testa. In seguito, approfittando dell’assenza di professori e compagni per le vacanze di Natale, i ragazzi finiscono in un’ala dell’istituto in disuso, dove si aggirano presenze sinistre. Questi eventi, apparentemente agli antipodi, diventeranno la causa della separazione dei due amici, in un crescendo di situazioni dai risvolti fatali.
Andrea De Sica, figlio e nipote d’arte, compie un primo passo davvero coraggioso, approcciandosi alla regia e alla sceneggiatura (insieme a Mariano Di Nardo e Gloria Malatesta) con un indubbio talento e soprattutto con un’idea ben precisa, che viene sviluppata in modo lineare e scorrevole, senza incertezze. De Sica descrive infatti con dovizia di particolari un ambiente che conosce molto bene e si concentra sulla classe sociale benestante, generalmente ignorata dal cinema a favore degli emarginati, e sulle dinamiche presenti all’interno delle scuole private, con tutte le ingiustizie e difficoltà del caso che possono minare alla psiche e al carattere degli adolescenti. I figli della notte, partendo dal racconto di questo particolare ecosistema, si sviluppa come un romanzo di formazione, una possibile rappresentazione simbolica del passaggio all’età adulta, un viaggio all’interno di sé stessi per scoprirne la vera essenza, qualunque essa sia.
La ragazza nella nebbia di Donato Carrisi
A due giorni da Natale, nel minuscolo e immaginario villaggio alpino di Avechot, scompare la sedicenne Anna Lou. Due mesi dopo, a seguito di un incidente stradale, l’ispettore Vogel si confessa allo psichiatra Flores e racconta la sua versione della vicenda, ormai chiusa. Chiamato a investigare sul caso, l’ispettore aveva sguinzagliato una nutrita squadra di polizia e parallelamente attirato, come sua consuetudine, un’enorme quantità di giornalisti, così da operare su due fronti in contemporanea e stanare il colpevole. Per una serie di coincidenze, i sospetti erano ricaduti su Loris Martini, un professore del liceo locale in una precaria situazione economica. Sull’uomo e sulla sua famiglia, composta dalla moglie Clea e la figlia Monica, si era scatenata un’eco mediatica senza precedenti ma effettivamente il caso si era presentato molto più contorto di quanto sembrasse. In una specie di gara a colpi di prove vere e presunte tra l’ispettore e il professore, per depistarsi a vicenda, era venuta a galla una macabra verità, una vecchia storia di omicidi sepolti nel tempo.
La trasposizione cinematografica dell’omonimo best seller dello stesso Carrisi del 2015 si propone di raccontare un triste spaccato della società odierna, dove nei casi di cronaca nera la giustizia passa in secondo piano a vantaggio dei giornali, dei talk show e soprattutto dell’opinione pubblica, con un’ossessione per i risvolti scandalosi e con l’intento di “sbattere il mostro in prima pagina”, piuttosto che di far luce sul caso e ricercare il colpevole. Intento ancor più amplificato se anche il conduttore delle indagini, colui che dovrebbe rappresentare la Legge, vi si concentra a danno dei procedimenti più ortodossi e regolamentari. La vicenda di Avechot ha tutte le carte in regola per attirare la morbosità della gente: un paesino tranquillo in montagna e le poche anime che vi abitano, una famiglia fortemente religiosa, una dolce ragazzina scomparsa, un affascinate professore coinvolto e chissà quali altri segreti nascosti nella comunità. In un susseguirsi di avvenimenti fittamente concatenati, raccontati da più voci, la soluzione emerge lentamente ma nessuno verrà mai a saperlo.
La morte che viene del freddo
Sia per I figli della notte che per La ragazza nella nebbia la scelta dell’ambientazione ricade su panorami alpini, alquanto inusuali se si guarda alla produzione noir classica, che tendeva a seguire la lezione dei capolavori americani degli anni Quaranta e privilegiare gli spazi urbani delle grandi città. De Sica e Carrisi decidono invece di concentrarsi sulle innovative potenzialità che i territori montani possono suscitare, non solo da un punto di vista stilistico, che richiama la letteratura thriller nordica di Stieg Larsson e Jo Nesbø, ma anche a livello narrativo e simbolico, dove più gli spazi sono ristretti o isolati più sono le incognite da portare alla luce.
Il collegio de I figli della notte e i suoi lunghi corridoi sono un chiarissimo richiamo all’Overlook Hotel di Shining, luogo sperduto tra le montagne del Colorado che conduce alla pazzia lo scrittore Jack Torrance (omaggiato esplicitamente da Giulio ed Edoardo in un paio di scene). Come accade nel capolavoro di Kubrick, l’istituto emerge come una fortezza per chiudere, di fatto, i contatti degli studenti col mondo esterno. Le telefonate vengono concesse in momenti prestabiliti della giornata, non esistono televisori, distrazioni o centri abitati nelle immediate vicinanze e i tutor controllano costantemente ciò che accade con telecamere nascoste. La neve, in questo caso, oltre a rafforzare la sensazione di isolamento, non può che valere come una sorta di ossimoro, una rappresentazione simbolica – e, se vogliamo, ironica – della trasgressione. In una situazione così restrittiva e soffocante, l’unica evasione possibile non può essere che il night club, oasi di piacere nel gelo, con il quale parrebbe esistere quasi un tacito “gemellaggio”. Ma naturalmente, come in ogni storia torbida che si rispetti, l’eros non può esistere senza il thanatos. L’ala abbandonata del collegio, come spiegherà il tutor Mathias a un sempre più remissivo Edoardo, è stata teatro del suicidio di due studenti che non hanno retto alla pressione della vita scolastica e il ragazzo, che riesce a vederne i fantasmi, si lascerà condurre verso lo stesso destino. A trovare la morte sarà anche Elena per mano di Giulio, colto da un raptus omicida quando la ragazza tenta di ingannarlo e fuggire con i suoi soldi. Il corpo della ragazza verrà infatti trovato esanime sotto una coltre di neve.
Le citazioni non mancano neanche nel film di Carrisi, poiché la minuscola e tranquilla cittadina di Avechot non può che ricordare Twin Peaks, con tutti i segreti che i suoi stranissimi abitanti nascondono. Come per la serie tv cult firmata David Lynch, infatti, La ragazza della nebbia è un’opera corale, in cui numerosi personaggi si alternano per dare corpo a una storia complessa e articolata e i luoghi che li circondano sembrano essersi fermati a qualche decennio fa. Seguendo la filosofia del film di De Sica, a dare vita all’atmosfera della vicenda sono ovviamente gli spazi; tra stradine isolate, cottage in legno, boschi dalla fitta vegetazione e notti nebbiose, Avechot è un idillio che si distrugge dall’interno, l’ultimo posto al mondo in cui una ragazzina potrebbe scomparire, ma dove in realtà, come sostiene Vogel, il Male si annida in ogni dove. Proprio per questa ragione, nelle primissime battute, Carrisi presenta in versione plastico, come accade nelle ricostruzioni dei fatti di cronaca nera all’interno dei talk show. Un paese che di lì a poco finirà sotto i riflettori e diventerà oggetto dello sguardo morboso delle telecamere.
Il Male sotto la maschera
Un altro vincente punto in comune tra i due film è certamente la costruzione di personaggi fluidi e multisfaccettati, che fino alle ultime battute riescono abilmente a confondere lo spettatore per poi sorprenderlo.
Andrea De Sica descrive il suo protagonista, Giulio, come un ragazzino immaturo, timido, impacciato, molto legato alla madre, un adolescente comune, in cui è possibile immedesimarsi, costretto a sopportare la dura vita del collegio. Lo sguardo perennemente malinconico e smarrito dell’interprete Vincenzo Crea non può che suscitare tenerezza allo spettatore, che vive con partecipazione l’evolversi della sua storia. La realtà straniante e rigida dell’istituto finirebbe per schiacciarlo se non fosse per la sua amicizia con Edoardo (interpretato da Ludovico Succio) il suo esatto opposto, che di fatto agisce come un input e che lo spinge ad esplorare non solo i confini esterni alle mura della scuola ma anche i limiti dell’Io. E’ però l’approccio al genere femminile, al sesso, a decretare definitivamente il passaggio di Giulio all’età adulta e il suo modo di essere cambia completamente, arrivando a distaccarsi dall’amico, a divenire meno bisognoso di protezione e, nel finale, persino a uccidere e a capovolgere gli eventi a suo favore. La malinconia e l’abbandono lasciano così il posto alla ferocia, lo sguardo smarrito e spaventato del ragazzo diviene vitreo, freddo, e un sorriso beffardo sigillerà la sua trasformazione definitiva. Giulio ha così superato brillantemente l’iniziazione al mondo degli adulti, dove l’empatia non è che una debolezza, a differenza di Edoardo, la cui sfrontatezza non è stata sufficiente ad accompagnarlo nella transizione.
Ne La ragazza nella nebbia, invece, l’ambiguità investe ogni personaggio: dal padre di Anna Lou al giovane Mattia, dall’avvocato Levi alla giornalista Leman, ognuno di essi ha più di un volto e Vogel ne è idealmente il capofila. L’ispettore, interpretato da un glaciale Toni Servillo, è ben lontano dal risolvere il caso lecitamente e, come d’abitudine, escogita una serie di scorrettezze e prove contraffatte, da un lato per uscire vincitore con la rivale di sempre, la conduttrice televisiva Stella Horen (Galatea Ranzi), e dall’altro incastrare il professor Martini, da lui ritenuto colpevole; d’altronde, sostiene, “la giustizia non interessa a nessuno”. Eppure, inevitabilmente, il poliziotto si fa coinvolgere dagli eventi, segue piste ufficiose, recupera indizi nascosti e apprende del misterioso Uomo della Nebbia, un serial killer che aveva già diffuso il terrore ad Avechot tempo addietro uccidendo delle ragazzine. Alla fine del suo discutibile percorso, Vogel scopre con orrore di aver sempre avuto ragione: Martini ha davvero ucciso Anna Lou ma l’insufficienza di prove lo ha riabilitato agli occhi della giustizia e dell’opinione pubblica. L’unica soluzione possibile è dunque quella di eliminare il colpevole, così da impedirgli di raggiungere il proprio obiettivo. La vicenda viene raccontata da Vogel, ingannatore ingannato, allo psichiatra Flores con il sangue del killer ancora sui vestiti, in una specie di confessione-seduta psichiatrica.
In questa girandola di personaggi ambigui, la medaglia d’oro va però a Loris Martini, un meravigliosamente cinico Alessio Boni come non lo si vedeva dai tempi di Arrivederci amore, ciao. Professore squattrinato, con moglie amorevole e figlia ribelle a carico, Loris cerca un metodo per risanare la propria situazione economica e, al di là di qualunque implicazione morale, sceglie di commettere un omicidio, uscirne pulito per mancanza di prove, incastrare il malcapitato Vogel e infine ottenere un cospicuo risarcimento: un piano complesso, diabolico e rischioso, che l’ispettore ha suo malgrado ispirato con la sua fama di “provocatore mediatico” e che fin da subito viene rivelato in un perverso gioco con lo spettatore, attraverso poche semplice frasi (“la prima regola di un grande romanziere è copiare”, “il Male è il vero motore di ogni racconto”, “è il cattivo che fa la storia”, “il protagonista deve essere ambiguo, tutti devono sospettare di lui”, “nella vita reale il movente più frequente è il denaro”, “il peccato più sciocco del Diavolo è la vanità”). La sequenza dell’omicidio di Anna Lou, tuttavia, rivela lo spiraglio di umanità del “mostro”, che sceglie di non infliggere dolore alla vittima e di estraniarsi con la musica.
Sul podio dell’ambiguità di Avechot non può mancare lo psichiatra Flores, nei cui panni c’è un Jean Reno stranamente inconsistente. Il dottore, sebbene compaia solo pochi minuti nella cornice narrativa della storia, non solo prende parte alla vicende di sangue del villaggio ma ne è indubbiamente l’iniziatore, poiché nel finale si scoprirà essere il vero Uomo della Nebbia.
I numeri del successo
Sebbene I figli della notte abbia vinto un Nastro d’Argento e ottenuto una candidatura ai David di Donatello, in Italia ha incassato solo 37,7 mila euro2, mentre La ragazza nella nebbia ha sbancato ai box office con 3,6 milioni di euro in 4 settimane di programmazione e 996 mila euro solo nel primo weekend3 Quali potrebbero essere i motivi di questo notevole divario negli incassi? A prescindere dagli indiscutibili gusti personali dello spettatore, è giusto riconoscere i meriti e i demeriti dei due film ed esporre alcune considerazioni. I figli della notte presenta una storia che è quasi un pretesto per affidare il tutto alle azioni di personaggi dalla grande incisività psicologica, con ambientazioni affascinanti e suggestive, che indubbiamente sostengono una particolare atmosfera. Avvincente e scorrevole, perfettamente girato (ma non recitato in alcuni punti) il film ha come difetto più evidente e fastidioso quello di non aver approfondito a sufficienza personaggi e relative situazioni dal grande potenziale, come l’ombroso tutor Mathias (Fabrizio Rongione) e la misteriosa Elena (Yuliia Sobol), sulle cui vere intenzioni rimane un punto interrogativo. Ne La ragazza della nebbia, al contrario, la storia e gli obiettivi di ogni personaggio vengono sviluppati appieno, generando una serie di sottotrame parallele alla vicenda principale. Ma appare evidente che affidare a Carrisi la regia e persino la sceneggiatura della sua stessa creatura letteraria ha probabilmente reso difficile una scrematura obiettiva, una scrittura cinematografica che lasciasse da parte qualche elemento a favore del linguaggio filmico e di una conseguente narrazione più fluida. La polifonia narrativa, infatti, tende spesso ad appesantire e complicare inutilmente una trama già contorta e difficile da seguire e una seconda visione del film appare necessaria per coglierne ogni dettaglio. Certo, La ragazza nella nebbia è girato e fotografato con grande eleganza e la sua vicenda presenta una morbosità e una ricchezza di particolari che non possono lasciare indifferente lo spettatore, ma il peso specifico dell’immaginario letterario e la presenza di un cast internazionale di spessore sono stati certamente decisivi per il suo successo. Viene da chiedersi se con le stesse frecce al proprio arco la prima creatura cinematografica di De Sica avrebbe potuto attirare su di sé la popolarità che meritava.
1 http://www.activitaly.it/immaginicinema/film_noir_italiano/film_noir_italiano.htm Intervento presente nel catalogo redatto in occasione della retrospettiva cinematografica “Il film noir italiano” – Roma 25 febbraio / 19 marzo 2006 presso Filmstudio 1 e 2
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