Sbarca finalmente su Netflix l’ultimo grande film di Alfonso Cuaròn.

Acclamato da critica e pubblico all’ultima Mostra del Cinema di Venezia e già saltato agli onori delle cronache per le innumerevoli polemiche sulla sua distribuzione (poi risoltesi grazie ad alcune proiezioni in sala prima del suo lancio online), arriva finalmente alla portata di tutti (o di chiunque abbia fatto l’abbonamento Netflix) l’ultimo film del regista messicano Alfonso Cuaròn.

Un film fieramente “made in Mexico” che tuttavia deve molto all’Italia, e non solo per quanto riguarda il titolo. Deve sicuramente molte delle sue scelte stilistiche alla grande stagione del cinema neorealista italiano (quella dei vari De Sica, Zavattini e Rosselini) e a Federico Fellini, almeno come ispirazione.
Si potrebbe, infatti, considerare questa pellicola come “il personale Amarcord di Cuaròn”.

Il film vincitore del Leone D’Oro 2018, infatti, è una piccola finestra sulla storia recente del Messico, negli anni dell’infanzia del regista (tra il 1970 e il 1971), dal punto di vista della domestica di una ricca famiglia del quartiere Colonia Roma (da qui il titolo del film) di Città del Messico.
Cleo (Yalitza Aparico), la protagonista del film, incarna la figura della tipica donna indios messicana, quindi in maniera traslata si può dire che rappresenti tutto il Messico. Un punto di vista decisamente insolito, che però diventa fondamentale poiché rappresenta la “voce del popolo”, quella che solitamente non arriva alle cronache della Storia (con la S maiuscola) ma che “vive” all’interno di essa.
In questo modo Cuaròn vuole farci entrare nel vivo del quartiere e, allo stesso tempo, nel vivo della storia messicana.

Le vicende di Cleo, infatti, si alternano con quelle della famiglia di cui è domestica: il marito medico Antonio, la moglie Sofia, i loro quattro figli, la nonna e l’altra domestica (nonché sua migliore amica) Adela. Allo stesso tempo si alternano con la storia messicana, in un momento particolare in cui la zona è oggetto di numerose tensioni sociali e politiche, ben visibili nei gesti e nei dialoghi dell’alta aristocrazia che circonda l’ambiente famigliare di Antonio e Sofia.

In queste sequenze Cuaròn dà vita  a una lunga catena di scene che alternano momenti puramente documentaristici a momenti simbolici, quasi surreali, in cui il “realismo magico” delle vicende prende vita davanti agli occhi dello spettatore.

Una delle scene di realismo magico tratte da “Roma” di Alfonso Cuaròn – screenshot da www.netflix.com

 

Si tratta di un film dal ritmo molto lento e disteso, in cui le singole parole e gesti assumono un significato simbolico. Motore di tutta l’azione sono i piccoli gesti di Cleo, dalla prima scena in cui le “onde” d’acqua puliscono il pavimento del palazzo signorile (che saranno una costante di tutto il film), fino all’ultima in cui è sempre lei a prendere i panni usati dalla famiglia per andarli ad asciugare fuori, simbolo di un’avvenuta rinascita dopo tutto il climax degli eventi trascorsi.

Sì perché la vicenda narrata da Cuaròn è quella di una donna “sedotta e abbandonata” dal cui dolore passa poi quello dell’interno nucleo famigliare.  La famiglia di cui è domestica Cleo, infatti, viene ad un certo punto abbandonata dal marito Antonio quando questo parte per una conferenza all’estero (viene fatto sottintendere che la coppia stava passando un momento non facile e che il marito abbia in realtà un’amante).
La vicenda narrata, quindi, diventa una storia di “sopravvissuti” che trovano la forza di resistere solo facendosi forza l’uno con l’altro. Cleo fa da collante a Sofia nell’educazione dei propri figli, aiutandola nel momento in cui il marito non c’è più, sopperendo così alla mancanza di figura paterna. Di rimando, Sofia protegge e si fa garante di Cleo nel momento in cui questa scopre di essere rimasta incinta di Fermìn (l’uomo di cui è innamorata), il quale però l’ha rifiutata negando la paternità della sua bambina.

Viene qui ripreso, dunque, il leitmotiv di tutti i film di Alfonso Cuaròn. Da I figli degli uomini fino al pluri-premiato Gravity,  il tema della paternità e dei legami umani torna prepotentemente nella filmografia del regista messicano. Che sia però un film blockbuster fantascientifico (peraltro omaggiato in una scena onirica del film) o una piccola storia vagamente auto-biografica, il risultato non cambia. Il film tocca corde sensibili della psiche umana e pone domande non-retoriche sul significato dell'”essere una famiglia” e del “non sentirsi abbandonati”.

La famiglia di Cleo è sicuramente disfunzionale, sotto molti punti di vista, ma è più unita e solidale di tante altre. Si tratta di un film dichiaratamente femminista: a un abbandono, e conseguente mancanza di paternità, corrisponde la forza delle due “mogli abbandonate” che trovano l’una grazie all’aiuto dell’altra, la forza di andare avanti e di tenere unita la famiglia, superando perfino quelle differenze sociali che all’inizio sembrano porle su due piani differenti e inconciliabili.

Una delle scene più intense tratte da “Roma” di Alfonso Cuaròn – screenshot da www.netflix.com

 

Roma è dunque una storia di orgoglio e di riscatto sociale, la stessa che attraversa il Messico in quel periodo. A differenza però del contesto violento che circonda i protagonisti del film, la famiglia di Cleo riesce a salvarsi solo grazie alla forza dell’amore e dell’affetto che intercorre tra loro.

Il regista sembra dunque indicare un suo manifesto programmatico di quello che, secondo lui, è la soluzione per i problemi sociali nel mondo. Per farlo decide di ricorrere a un ritmo volutamente lento (il film dura più di due ore!), come quello del lavoro umile (ma estremamente importante) che scandisce la vita della protagonista. Attraverso i suoi gesti e il suo sguardo lo spettatore impara a vivere la sua situazione e ad entrare meglio nel suo mondo.
Il meraviglioso bianco e nero (vintage, ma allo stesso tempo molto moderno), creato dallo stesso Cuaròn e dal direttore della fotografia Galo Olivares, contribuisce a creare quell’atmosfera sospesa da sogno, che è funzionale per questo scopo. Allo stesso modo le inquadrature a tutto campo che inseriscono i personaggi all’interno di una cornice più ampia, come se ambiente e personaggi fossero tutt’uno con l’altro, fondendosi tra loro.
I lenti piani-sequenza s’inseriscono in questa tendenza, partendo sempre dal “particolare” del personaggio di turno ed estendendosi poi all'”universale” dell’ambiente circostante.

Come un abile direttore d’orchestra, Cuaròn si serve di questi continui stratagemmi narrativi inserendoli in maniera consapevole all’interno della pellicola. In questo modo sopperisce alla quasi totale mancanza di colonna sonora all’interno del film, in quanto le stesse immagini diventano la “danza” su cui si muove la storia, creando uno spartito visivo di tutto rispetto.

Roma è una storia apparentemente semplice, in realtà è un crogiolo di metafore e simbolismi in cui da una vicenda popolare e bassa, si arriva direttamente a parlare della Storia recente messicana (e quindi  di quella occidentale tout court). La lenta ripresa finale passa direttamente dalla scala del palazzo, dove vivono Cleo e la sua famiglia, al cielo di Città del Messico in cui un aereo parte all’orizzonte, simbolo che la storia si è ormai conclusa e che quella piccola parte di mondo è ormai finito.

Il “sogno-ricordo” di Cuaròn si conclude così, ma lo spettatore ha ormai imparato a conoscere il passato (ma anche l’attualità) del Messico contemporaneo. E come ogni buona favola che si rispetti, il finale lascia un messaggio di speranza per il futuro delle protagoniste e, allo stesso tempo, dello spettatore che ne ha seguito le vicende.

Cleo (l’esordiente Yalitza Aparicio) in una scena del film “Roma” di Alfonso Cuaròn – screenshot da www.netflix.com

 

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