Quasi 15 anni dopo Fahrenheit 9/11 torna Michael Moore e la sua pungente ironia per analizzare l’America del dopo-Trump. E capire cosa è andato storto.

“Era tutto solo un sogno? […] Alle 2.29 del mattino dell’8 novembre 2016 l’immagine del nostro nuovo leader è stata proiettata sull’Empire State Building… come cazzo è stato possibile?”

C’eravamo lasciati con le immagini del World Trade Center l’11 settembre 2001, data divenuta ormai iconica per la Storia americana. Il trauma dell’attacco alle Torri Gemelle fu un cambiamento epocale nella mentalità e nella cultura del (presunto) Paese delle Libertà che si riscopriva così sotto attacco militare e con un atteggiamento ostile nei confronti dello “straniero” e del “diverso”.

Anni dopo l’irriverente regista-documentarista Michael Moore, che grazie al suo film Fahrenheit 9/11 aveva analizzato la vittoria elettorale di George W. Bush junior, conseguente a quell’evento, torna, come si suol dire, sul “luogo del delitto” analizzando da vicino un’altro importante “trauma” della storia americana: l’elezione di Donald Trump come 45° Presidente degli Stati Uniti d’America.
E lo fa ovviamente con tutta la sua ironia e il suo essere, al tempo stesso, protagonista e guida del suo stesso documentario.

È ovvio, infatti, come la presenza del regista di Flint sia più che mai presente all’interno della pellicola, demandando completamente quel ruolo di “osservatore neutro” che dovrebbe avere la macchina da presa in questo genere di pellicole. Al contrario, la pellicola si schiera fin da subito, così come il suo autore, per una precisa parte politica, e il messaggio finale vuole essere tutto meno che neutrale. Anzi, è un vero e proprio inno all’azione e alla ribellione contro un regime (quello dei media prima ancora che quello politico del Presidente) che condiziona in maniera negativa (secondo la visione del regista) la vita degli americani.

Tramite l’escamotage del found footage (qui come non mai frammentato e manipolatorio), dei filmati di repertorio e della ripresa dal vero, Michael-Virgilio guida lo spettatore-Dante attraverso un viaggio (all’inferno) al cuore stesso degli Stati Uniti d’America. A partire dai suoi protagonisti più eclatanti ovviamente (la classe politica americana, di tutti gli schieramenti) fino a spostarsi alla medio-borghesia americana, al mondo dei media, ai diversi strati sociali di cui si compongono le varie etnie americane, fino ad arrivare alle periferie più abbandonate dell’impero, dove vivono le classi più umili e maltrattate.

In questo lungo viaggio nessuno dei personaggi con cui ha a che fare viene risparmiato, compresi i suoi stessi “alleati” politici, non meno colpevoli degli avversari Repubblicani per aver lasciato via libera a un Presidente simile. I dialoghi e le battute taglienti del regista in questi casi risultano sempre lapidarie, dei piccoli sassi scagliati lungo il racconto, quasi impercettibili ma sempre molto taglienti.

Questo lungo viaggio in realtà risulta essere molto statico: in pratica la protagonista assoluta di tutta la pellicola è Flint, la cittadina del Michigan in cui è nato lo stesso regista, qui nel ruolo di metafora/spaccato di tutta la nazione.
Una città che, in seguito alla deindustrializzazione, è diventata una delle realtà più povere degli USA fino a un grave scandalo che ha riguardato la pubblica amministrazione del posto che appare come collegato più che mai proprio all’elezione di Donald Trump.

Si tratta di un viaggio molto complesso e variegato, in cui compaiono numerose sfaccettature e problemi sociali che mostrano tutte le luci e le ombre dell’America trumpiana. Ma è soprattutto un viaggio interiore da parte di un personaggio che, a seguito di un trauma, si sente perso nella realtà e cerca disperatamente di capire. Di orientarsi in questo nuovo mondo.

Molte sono le tematiche e i problemi che la pellicola tocca: dagli scandali giudiziari alla disoccupazione, dall’ambientalismo alle stragi nelle scuole (tema caro a Moore fin dai tempi di Bowling a Columbine). Fino a paragoni storici tra il regime trumpiano e il Terzo Reich.
Una simile varietà di argomenti rischia a tratti di disorientare, più che altro perché pare sia tutto molto improvvisato e senza un filo logico.
Ma l’abile Moore in realtà è un ragno tessitore che costruisce la trama a poco a poco, facendo sì che lo spettatore sia guidato dalle sue azioni, e il quadro completo di tutta l’opera compare solo una volta arrivati alla fine del lungometraggio. Il tema principale che sta dietro a tutta la pellicola è la società americana nel suo complesso con tutte le contraddizioni che si porta dietro da tempo immemore.

Arrivati alla fine della visione, infatti, la sensazione è che Moore preparasse questo lavoro da più tempo, forse da prima della stessa elezione di Trump (da lui stesso prevista!). Certo si nota una capacità di storytelling più unica che rara e un’abilità particolare di passare dal particolare all’universale in pochi stacchi di montaggio.

Fahrenheit 11/9 è un film che offre uno spaccato dell’America sicuramente soggettivo e di parte, secondo la visione unidirezioale del suo autore. Ma è comunque un’opera completa nel suo trattare un argomento molto vasto da diverse direzioni, ciascuna caratterizzata da un proprio stile registico.

La pellicola è stata trasmessa in Italia sulla rete televisiva La7 il 5 novembre, il giorno prima delle elezioni di Midterm 2018. A questo link è possibile recuperare la registrazione della serata comprensiva anche di un’intervista esclusiva al regista. Nel momento in cui scriviamo non sono ancora usciti i risultati.
In attesa di scoprire il verdetto dell’ElectionDay consigliamo caldamente di vedere (o rivedere) questo particolare documentario che ha l’aspetto e lo stile di un saggio sociologico ma anche la forza e la capacità d’intrattenimento delle grandi opere di “fiction”.

Screenshot di una scena di Farheneith 11/9 del regista Michael Moore, in onda lunedì 5 novembre su La7

 

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