La sezione Orizzonti della Mostra del Cinema di Venezia di quest’anno è stata conquistata da un meritatissimo vincitore, Manta Ray di Phuttiphong Aroonpheng. Thailandese e già talentuoso direttore della fotografia, è proprio con questo film che Aroonpheng esordisce nel lungometraggio, firmandone sia regia che sceneggiatura. Non ci vuole molto a descriverne la trama: un pescatore (Wanlop Rungkamjad), il cui nome non verrà mai pronunciato, trova nella foresta un uomo muto (Aphisit Hama), ferito e incosciente, e lo porta nella sua dimora per occuparsi di lui. I due vivranno insieme fino alla scomparsa del pescatore, seguita dal ritorno di Saijai (Rasmee Wayrana), ex moglie di quest’ultimo.

Se è così facile parlare delle premesse di Manta Ray, la descrizione di tutto il resto è invece tutt’altro che sbrigativa. Già a partire dallo sviluppo della trama si notano eventi decisamente bizzarri. Il pescatore si affeziona particolarmente all’uomo muto, tanto da dargli un nome, Thongchai, in onore di un cantante che egli apprezza molto. La loro sembra quasi divenire una relazione sentimentale nel corso della narrazione, fino alla scomparsa del pescatore. Al ritorno di Saijai la situazione deraglia ulteriormente: la donna inizia ad abitare a casa con lui e a relazionarvisi come fosse il suo ex marito. Quello che accade è una vera e propria sovrapposizione del personaggio di Thongchai a quello del pescatore. Come il pescatore ha ospitato Thongchai, quest’ultimo ospiterà Saijai; ella lo acconcerà per renderlo più simile all’ex marito, tingendogli i capelli di biondo; come il pescatore aveva fatto conoscere al suo ospite la sua musica preferita, Saijai canterà per lui durante un bagno rilassante. Anche gli eventi del finale si inseriranno in questa operazione di sostituzione, nel quale la musica tornerà ad avere un ruolo centrale, assieme all’acqua.

Il comparto visivo risulta davvero notevole e si rivela uno dei punti più forti del film. Nonostante il ritmo sia volutamente rallentato, la bellezza delle inquadrature e la vividezza dei colori riescono ad alleggerire una visione altrimenti assai faticosa. Alcune trovate visive diventano dei veri e propri leitmotiv che testimoniano la corrispondenza tra i personaggi di Thongchai e del pescatore: gli addobbi luminosi dei quali entrambi sono appassionati rappresentano l’esempio più evidente, ma è forse altrettanto degna di nota la presenza del parco divertimenti in dei momenti particolari della storia. Il parco infatti, dotato di ruota panoramica, viene visitato da Thongchai in tre specifiche occasioni: la prima in compagnia del pescatore, la seconda da solo, dopo la partenza dell’amico, e la terza con Saijai, durante la loro convivenza. La ruota si erge anche come simbolo della ciclicità degli eventi, che dopo aver visto Thongchai prendere il posto del pescatore si concludono con il ritorno di quest’ultimo e il suo incontro con l’ex moglie; come il pescatore era stato abbandonato dalla moglie, lo stesso destino toccherà anche al suo sostituto. A questo punto l’uomo “subentrato” non può far altro che andarsene e tornare laddove è stato trovato.

È evidente come il discorso che Manta Ray vuole portare avanti riguardi l’identità e il rischio di perderla, ma la sua portata è in realtà ancora più ampia. L’intero film è infatti da interpretare in senso allegorico, e un aiuto in questo senso viene da una parte della storia thailandese poco nota alla maggioranza degli occidentali. Tramite alcuni accorgimenti, primo fra tutti un sottotitolo all’inizio del film, Aroonpheng dedica il suo lavoro ai Rohingya; diffusi nel sud-est asiatico e Medio Oriente, sono considerati una delle minoranze etniche più perseguitate al mondo. In Manta Ray il pescatore stesso sembra attivamente coinvolto nella persecuzione dei Rohingya, e l’ospitalità concessa a Thongchai è la probabile causa della sua sparizione. Ecco quindi che la trasformazione di Thongchai nel pescatore diventa metafora della perdita di identità dei Rohingya e delle minoranze in generale, che in nome di una presunta sicurezza finiscono per amalgamarsi, rinunciando a tutto ciò che li caratterizzava e disperdendosi nella popolazione dominante del territorio in cui si trovano. Poiché tutto è però ciclico, come si è già visto, la persecuzione è destinata a non fermarsi. La riscossa del gruppo dominante, qui simboleggiata dal ritorno del pescatore, porta la minoranza a scappare e isolarsi, per cercare la protezione che il metodo usato fino a quel momento non può più darle.

Emblema di tutto questo è il finale, che ci mostra Thongchai in fuga dalla casa del pescatore e diretto verso la foresta, mentre un cacciatore di uomini si aggira per gli stessi luoghi. Tutte le luci colorate apparse durante il film accompagnano la sequenza finale, mentre un Thongchai dai capelli non più biondi canta gutturalmente come il pescatore gli aveva insegnato e si immerge nell’acqua come usava fare con lui; il ricordo di quell’amicizia che aveva superato le barriere della diversità è vivo in Thongchai, persino nel difficile momento. Infine, le mante che danno il titolo al film: similmente all’attrazione dei due protagonisti per le luci degli addobbi, il pescatore aveva spiegato come questi animali fossero attratti dalle piccole pietre rilucenti trovate nella foresta. L’ultima scena che vediamo ci presenta proprio due mante, che viaggiano insieme in tranquillità nel mondo subacqueo. Un mondo sicuramente difficile da vivere, ma in un certo senso più giusto e libero di quello in cui vivono i personaggi di Manta Ray.

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