Dopo la parentesi realistica di The Gambler (2014) Rupert Wyatt, già regista degli acclamati Prison Escape (2008) e L’alba del pianeta delle scimmie (2011), torna alla fantascienza con Captive State. Dopo un’invasione aliena, l’umanità si è divisa tra chi appoggia la conquista e chi vi si oppone. In particolare, le vicende mostrate hanno luogo a Chicago, dove un gruppo di ribelli viene contrastato dall’ufficiale di polizia William Mulligan (John Goodman). Il giovane Gabriel (Ashton Sanders), fratello di uno dei rivoluzionari, diventerà figura centrale nelle vicende narrate.

Wyatt usa un approccio particolare per la sua storia di ribellione sci-fi. Captive State emana infatti un’aura gelida nel raccontare la battaglia tra le due parti in gioco. La pratica che adottano i ribelli, legata alla scarsa conoscenza gli uni degli altri, si riflette perfettamente nello stile della narrazione. Il film racconta solo l’indispensabile, lasciando la prolissità verbale al minimo e preferendo mostrare i personaggi in azione. Per sottolineare la serietà che caratterizza i rivoluzionari, le loro azioni e le loro strategie vengono ben messe in evidenza: ordini in codice stampati nei quotidiani, distruzione di prove, occultamento di ogni possibile gesto che possa portare al fallimento dei loro piani. Tutto questo sempre riducendo all’osso i famigerati spiegoni.

La diffidenza verso l’establishment è palpabile. Wyatt ha sempre dichiarato di tenere a raccontare la ribellione al dispotismo, e in Captive State porta a termine l’obiettivo usando l’espediente dell’invasione aliena. Invasione che in realtà altro non è se non una metafora. Il collaborazionismo è infatti ormai da secoli parte integrante dei grandi conflitti. Basti pensare alla seconda guerra mondiale, che vide zone rilevanti di Francia e Cina (oltre che di diversi altri stati europei) costituirsi come nazioni fantoccio al servizio degli invasori. Gli umani favorevoli all’invasione aliena appartengono proprio a questa categoria, e diventa impossibile non associarli alle suddette nazioni. Più in generale, ad essere condannato è l’asservimento del potere politico a forze più grandi, lontane dalla democrazia; gli alieni nel film, spudorati sfruttatori di risorse naturali, hanno più di un punto in comune con le lobby commerciali del nostro mondo.

Captive State non è però un film privo di difetti. La freddezza con la quale viene narrato il tutto porta a caratterizzare i personaggi in maniera a volte approssimativa e ad uno svolgimento degli eventi che può spesso risultare confusionario da seguire. Volendo si potrebbe soprassedere ad elementi del genere in nome dell’impostazione particolare del racconto. Ma anche in questo caso l’introduzione del personaggio di Vera Farmiga appiattisce l’oppressione della trama, infrangendo i dubbi sulla via che si andrà a percorrere. Un’attrice di tale fama in un ruolo così marginale fa sorgere nello spettatore inevitabili sospetti, poi confermati dal finale. In sostanza, Captive State è senz’altro un film rispettabile, ma ben lontano dal livello nel quale la sua ambizione voleva collocarlo. Un destino nel quale il cinema contemporaneo si imbatte sempre più facilmente.

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