È il 1998, a due passi dal nuovo millennio. Il calcolatore di dati, comunemente chiamato computer, si è da poco preparato ad accogliere una nuova era rivoluzionaria, quella che avrebbe tessuto un’intricata ragnatela di interconnessione in tutto il mondo: il World Wide Web. In quest’amorfo e primordiale universo virtuale – sotterraneo, ancora distante dalle logiche proprietarie delle multinazionali, giungla ignota e di accesso non immediato – prendeva forma una sottocultura di amanti neofiti , attratti magneticamente da questa pseudorealtà cibernetica; vero e proprio far-west anarchico e luogo ancora inesplorato di assoluto caos, dove potersi liberamente esprimere e dove attingere a dati ed informazioni oscure e proibite in superficie. Il fascino per la cultura distopica cyberpunk, alle soglie degli anni Duemila, dominerà una parte dell’immaginario collettivo, immaginario popolato dai temi dell’intelligenza artificiale, del post-umanesimo biotecnologico, del confine tra uomo e androide, della robotica e della clonazione, quali baluardi per un modo di vivere in aperto contrasto con la cultura dominante e critico rispetto ad essa, le cui radici ideologiche risalgono al movimenti punk  underground nato sul finire degli anni Settanta.

«9 e 13, nota personale: quando ero piccolo mia madre mi diceva che non bisogna mai guardare fisso il sole, ma una volta, a sei anni, l’ho fatto. I dottori non sapevano se i miei occhi sarebbero guariti, io ero terrorizzato, ero solo in mezzo a tutto quel buio. A poco a poco la luce cominciò a farsi strada fra le bende e io riacquistai la vista, ma qualcosa era cambiato dentro di me, e cominciarono le emicranie».

 Pi Greco – Il teorema del delirio, film d’esordio alla regia di Darren Aronofsky, segue la vicenda, o meglio, il delirio mentale di Maximillian Cohen (Sean Gullette), matematico brillante e sociopatico, ossessionato dai numeri e dagli schemi logico-binari. Max, incapace di visione lucida, narra se stesso dall’esterno, spesso con voce fuori campo, scandendo le proprie monotone giornate come se annotasse un maniacale diario personale. Alienato nelle quattro anguste pareti della sua camera, egli vive per elaborare la realtà circostante come se fosse una stringa numerica, al fine di scoprire l’essenza della  costante matematica del  π ed estrapolare una sequenza di 216 cifre, formula alla base della Verità e Legge che regola tutte le cose dell’universo: schema naturale che ordina la Natura. La matematica e la scienza si fanno credo e religione, fondendo inestricabilmente fisica e metafisica, numerologia e misticismo. Colpito da lancinanti e ciclici attacchi di emicrania che mandano il suo cervello in cortocircuito sinaptico, Max, assuefatto a droghe e a componenti chimiche eccitanti/inibitorie, suddivide la realtà in porzioni e sottoporzioni riconducibili a schemi ricorrenti e prevedibili, secondo un duplice movimento inestricabile – induttivo e deduttivo – che da assiomi soggettivi  cerca di approdare all’oggettività e all’universalità, e viceversa. Questo stesso sistema universale, secondo Max, una volta svelato sarebbe capace di prevedere con precisione matematica l’andamento generale della Borsa di Wall Street, facendola così implodere: «Primo: la natura parla attraverso la matematica; secondo: tutto ciò che ci circonda si può rappresentare e comprendere attraverso i numeri; terzo: tracciando il grafico di qualunque sistema numerico ne consegue uno schema. Quindi ovunque, in natura, esistono degli schemi».

Con questo primo lungometraggio a basso costo – vincitore del Premio alla regia al Sundance Film Festival del 1998 – Darren Aronofsky irrompe prepotentemente nella scena cinematografica indipendente statunitense mostrando fin da subito un’impronta autoriale tutt’altro che impersonale e riservata.
Fin dalle prime scene, e fino alla fine, lo spettatore viene totalmente inglobato nelle dinamiche paranoiche del protagonista, restituite a livello formale-visivo tramite un montaggio e una regia di estrema claustrofobia: il denso contrasto tra bianco e nero, una macchina da presa a mano che realizza movimenti caotici – al limite dello sgradevole – e primi piani asfissianti, un montaggio schizofrenico, velocizzato, sempre uguale a se stesso, una fotografia sgranata, grezza, ruvida e sporca rimandano alla memoria lo spirito d’azzardo sperimentale del “primo” Lynch di Eraserhead, entrambe pellicole dalle tinte inquietanti vagamente horror. Da un lato una New York decadente e caotica, dall’altro una Philadelphia degradata e isolata, Max, vero e proprio weirdo ed emarginato sociale per eccellenza, è il corrispettivo postindustriale (prodotto della  neo-era digitale) di Henry Spencer, freak alienato appartenente alla passata era industriale.  Il primo vive l’alienamento come deliri matematici sequenziali e ciclici, il secondo come una mise en abyme di allucinazioni stratificate l’una dentro l’altra.

E così come fu per Lynch nella realizzazione del sound-design del suo primo film, popolato da suoni sia metallici che vaporosi – provenienti da nessuna parte eppure onnipresenti – , anche la colonna sonora di Pi Greco risulta decisiva in quanto tramite che permette allo spettatore di essere catapultato con maggiore intensità nella psiche del protagonista. Si potrebbe affermare che il sonoro, in Pi Greco, contribuisca ancor più della controparte visiva alla creazione di quel particolare stato d’animo di labirintica angoscia che si attacca sulla pelle dello spettatore e da cui è difficile districarsi. Per effetto sinestetico, il sonoro riesce a trapanare il cervello dello spettatore e a contribuire in modo determinante all’amplificazione delle stesse sensazioni di paranoia e di dolore del protagonista; affanno e vertigini visive giungono dritti a livello psicosensoriale e neuronale, sovrastimolati dalle scariche elettriche che partono dall’apparato sonoro/uditivo. La scelta di una colonna sonora interamente elettronica, realizzata dal compositore britannico Clint Mansell, risulta particolarmente coerente con l’atmosfera di assoluto alienamento che circonda il protagonista: una soundtrack in cui la componente elettronica, linfa vitale delle macchine e dei calcolatori, non dà minimo spiraglio alla presenza dell’umano. L’umano infatti cade in errore, mentre la macchina no. E così i deliri mentali di Max, che crescono in climax mentre si avvicina a quella che lui pensa essere la Verità Assoluta, si infittiscono quando, convinto dell’assoluta perfezione dei suoi calcoli, essi continuano a rivelarsi fallaci. Il ritmo serrato che domina il film viene amplificato dai battiti Electronic Dance Music (EDM) in voga negli anni Novanta – sulla soglia del nuovo millennio, «sull’orlo di un precipizio, lì dove succede tutto» – tra la Techno degli Orbital (P.E.T.R.O.L), l’Intelligent Dance Music di Aphex Twin (Bucephalus Bouncing Ball), il Trip-Hop dei Massive Attack (Angel) e la Drum and Bass di Roni Size (Watching Windows). I beat che scandiscono la colonna sonora diventano i battiti del cuore pulsante del film, o meglio, robotici bip-bip che monitorano la sua frequenza cardiologica. In questo ventaglio di sonorità EDM, il sound si basa su un’ipnotica e climatica ripetizione di se stesso – snervante – quasi ad amplificare l’ossessiva monotonia delle (allucin)azioni del protagonista come fossero coazioni a ripetere verso la morte, e delle inquadrature montate come prodotti identici tra loro, usciti alienati da una catena di montaggio. Gli stessi monologhi che Max recita morbosamente a se stesso come un mantra di assiomi su cui fondare a sillogismo automatico la propria vita, si ripetono nel film per accumulazione matematica dove all’identico viene progressivamente aggiunta una lieve variazione (X, X+Y, X+Y+Z ecc…).

A questo proposito, i leitmotiv principali che compongono la soundtrack del film, πr² e 2πr (di Clint Mansell), ritornano come motivetti martellanti nelle scene topiche della narrazione, percepiti ormai in modo quasi subliminale dallo spettatore. Il battito della musica suggerisce, per tutta la durata del film, sonorità da un altrove sconosciuto, echi di suoni naturali e robotici dissonanti di un luogo lontano, virtuale e irreale, scientifico e fantascientifico. Suoni futuristici e spaziali come effetti Doppler, suoni cardiovascolari, attutiti ma scanditi con frequenza regolare, ultrafrequenze e sottofrequenze con lunghezze d’onda ricche di bassi e prive di gravità si avvicinano per poi allontanarsi distorti o uguali a sé, replicando le distorsioni allucinatorie di Max. Se all’apparenza alcuni rumori sembrano ingiustificati e de-contestualizzati, come ad esempio gli stridii degli oggetti metallici, in realtà, esaltati nell’architettura sonora complessiva, amplificano in sinestesia la sensazione tattile delle azioni compiute dal protagonista, percepibile spesso sotto forma di  cacofonico fastidio epidermico da chi le ascolta. Allo stesso modo, i ticchettii ritmici scandiscono il sottofondo acustico di alcune scene, richiamando l’ambiente in cui avvengono e creando un effetto di angoscioso conto alla rovescia al limite del time-out (per esempio, in una delle sequenze dei pasti di Max alla tavola calda, si può udire fuoricampo una posata di ferro che viene fatta battere ripetutamente, senza apparente motivo). A partire da un rumore ambientale, spesso, prende avvio un frame musicale avente quel rumore mimetizzato in esso, depersonalizzato della sua funzione originaria e risemantizzato, a sua volta, in un insieme sonoro e ritmico nuovo. Ad esempio, a partire da alcuni suoni diegetici, quale il bip-bip di un metal detector, prendono corpo motivi musicali extradiegetici, spesso suoni ambientali che riecheggiano lo spettrale (la parte spirituale e metafisica delle teoria di Max) e il tecnologico (l’aspetto scientifico e razionale), quasi a delineare la schizofrenia che caratterizza i due emisferi del cervello del protagonista, quello appartenente alla logica e quello appartenente all’intuizione.
Dall’unione di questi due “mondi” apparentemente opposti, Max inizia a comprendere come sia necessario non solo osservare l’architettura dei numeri con visione macroscopica, ma anche la trama della natura nel microscopico, per ricondurre la parte all’armonia del Tutto. Così la spirale, dedotta dai teoremi pitagorici circa la sezione aurea e ricorrente nelle opere d’arte di Leonardo da Vinci, nella nuova teoria di Max diventa la forma essenziale, il microchip che si incastra perfettamente nella “scheda madre”, per dirla in termini informatici; componente costitutiva dal DNA alla Via Lattea.

«9 e 22 nota personale: quando ero piccolo mia madre mi diceva di non guardare fisso il sole, ma una volta, a sei anni, lo feci. Da principio quella luce accecante era insopportabile, ma io non distolsi gli occhi neanche per un momento. A poco a poco la luce iniziò a dissolversi, le mie pupille si ridussero a capocchie di spillo, e riuscii a mettere tutto a fuoco. Per un momento vidi e capii. Ecco la mia nuova teoria: se noi siamo delle spirali e viviamo in una gigantesca spirale, allora tutto ciò che ci circonda si fonda in quella spirale».

Sono deliri dettati dalla paranoia o irraggiungibili verità assolute? Un teorema scientifico che porta al delirio o al “vero nome di Dio”?

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