Basato su una storia vera accaduta a Detroit negli anni Ottanta, la pellicola racconta la storia del minorenne Rick (Richard Wershe Jr.) nei sobborghi della città con cui vive di espedienti, non del tutto leciti, trafficando armi con suo padre ed immergendosi nel traffico di droga. La famiglia viene individuata dall’FBI che tenta di arrivare alle bande locali. Il ragazzino diventa una spia, convinto di poter migliorare lo status economico della famiglia. Il padre è un perdente, eterno sognatore, che spera un giorno di aprire una videoteca mentre sua sorella, Dawn, tossicodipendente, è costantemente bisognosa di sostegno. Allettato dai guadagni fatti facendo la spia per l’FBI, il giovane intraprende un percorso di distruzione, entrando in un tunnel di illegalità e di ingiustizia. Un supplizio risolto solamente nel 2017, dopo trent’anni di carcere.

White Boy Rick è il soprannome che gli era stato affibbiato dai suoi amici di colori che gestivano il traffico di stupefacenti della città. Poco colto in quanto aveva abbandonato la scuola prematuramente, Rick si muove in un mondo pericoloso senza comprendere le conseguenze delle sue azioni. Ingenuo e fedele alla famiglia, si fa condizionare dal doppio ruolo di spia e spacciatore, finendo invischiato in un atto di ingiustizia negli anni alla guerra contro la droga voluta dal presidente Regan. Alla fine, il giovane sconterà le colpe di tutti finendo in prigione pur avendo collaborato per incastrare le persone responsabili del traffico di droga.

La pellicola rende bene il difficile nucleo famigliare di Rick, offrendo uno sguardo esaustivo al padre sognatore che si arrangia trafficando con armi illegali, a sua sorella, vittima degli alti e bassi tipici dei tossicodipendenti e alla sua vita stessa. Il suo essere ingenuo, grezzo e, sotto sotto, un po’ ottuso. Tuttavia, a parte la caratterizzazione della famiglia Wershe, il film offre una storia sbiadita, stantia e lenta. Pecca di problemi di sceneggiatura e non riesce a costruire un percorso evolutivo interessante, ritmato e non è in grado di scandire in modo appropriato tutte le fasi dell’ingiustizia giudiziaria. Nonostante sia una storia di violenza, il lungometraggio evita le questioni violente e si focalizza sulla famiglia, sperando di offrire uno sguardo intimo sui membri e sul giovane Rick. Anche lo spaccio viene quasi messo da parte. L’importane sono le dinamiche famigliari che però non offrono niente di nuovo (a livello cinematografico) e vengono sviluppate in maniera lenta. La storia centrale viene resa malamente con personaggi secondari costruiti in modo banale e poco caratterizzati. Nessuno di loro balza all’occhio e offre scene memorabili. È il racconto di un tradimento ma le relazioni con l’FBI non sono rese cosi chiare e l’ingiustizia inizia ad essere più chiare negli ultimi minuti. Il film manca di un contesto politico di quegli anni e di un quadro generale sulla città. L’ascesa e la caduta del crimine, idea seppur già sviluppata in tantissime pellicole, viene trascurata, facendo perdere al film il mordente.

Per concludere, Cocaine: la storia di White Boy Rick è un film piatto, anonimo e che non aggiunge niente di già visto al cinema. Un’ingiustizia giudiziaria resa malissimo a livello cinematografiche e non carica di emotività o di intensità la storia. Fredda e poco scorrevole, il film si rivela stantio, lento e poco caratterizzato. Seppur il nucleo della famiglia Wershe sia valorizzato e reso bene, il lungometraggio rimane ingolfato nell’idea di voler raccontare il mondo di Rick focalizzandosi interamente sull’ingenuità, e l’essere ignorante e tonto del ragazzino.  Il risultato è una pellicola sbiadita, anonima e che non porta a nessuna riflessione sull’ingiustizia. Non offre né fini didattici e né soddisfazioni di intrattenimento/di rivalsa giudiziaria. Un lungometraggio dimenticabile. Un’occasione mancata per raccontare una storia interessante e piena di spunti riflessivi interessanti e attuali. Il potenziale c’era.

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