True Detective è uno dei prodotti di punta della HBO e dopo una prima stagione meravigliosa (la prima, indelebile e indimenticabile), si è persa per strada con secondo ciclo di episodi che non hanno soddisfatto la critica e il pubblico. Molti si sono domandati, serie ad effetto meteora, con una stagione in stato di grazia e niente più, o realmente prodotto cult, degno di entrare negli annali della storia della tv? La risposta sta nel mezzo e ci viene in soccorso questa terza stagione che si è da poco conclusa. Il prodotto è di livello, scritto in modo raffinato e diretto/costruito secondo un dramma poliziesco vecchia scuola dove la risoluzione del crimine viene ancorato in modo indelebile alla psicologia del passato. Un’ossessione che tiene in vita il detective e l’aiuta a sopperire e superare i propri problemi. 

In questa stagione, il crimine è legato a Wayne Hays un poliziotto di colore che nel 1980 ha lavorato con il suo partner Roland al caso della scomparsa di due ragazzini, in una piccola cittadina degli Stati Uniti.  Il ragazzo viene trovato morto mentre la ragazzina scompare misteriosamente. Ben dieci anni dopo, all’improvviso viene scoperto che la ragazza, ormai cresciuta, è viva. Pertanto, il caso viene riaperto. Tuttavia, la risoluzione viene compiuta in ben 35 anni, quando oramai Wayne è un vecchio pensionato con problemi di memoria.

La stagione è costruita utilizzando ben tre linee temporali (1980, 1990 e 2015) che seguono la vita di Wayne Hays che è legato in modo indissolubile all’evoluzione del caso. Da giovane detective, reduce della guerra del Vietman, a padre di famiglia fino ad essere un ex poliziotto dalla mente confusa e annebbiata. La linea temporale del 2015 è quella centrale in quanto Wayne, ormai vedovo e affetto da Alzheimer, si convince a ritornare ad investigare sul vecchio caso (irrisolto) che ha segnato per sempre la sua vita. Per questo motivo riprende in mano i vecchi appunti scritti dalla moglie, che dopo l’accaduto scrisse un libro, che, nel corso del tempo, non è mai riuscito a leggere. Attraverso la sua sbiadita memoria veniamo a conoscenza dell’accaduto con frammenti in flashback, a volte letteralmente fumosi, che coinvolgono anni Novanta e Ottanta. Lo scopo di Wayne è duplice poiché, da un lato vuole, finalmente, risolvere il mistero, mentre dall’altro gli serve per ricordare la propria vita coniugale in quanto l’evento ha segnato sia lui che sua moglie Amelia.

L’ambientazione è rurale, lontana dalla metropoli (della seconda stagione) e si ritorna alla campagna americana di Orzak che rende la vicenda più spaventosa e affascinante. Un altopiano dalla larga superficie e dove è possibile trovare qualsiasi tipologia di ecosistema naturale. Inoltre, un contesto simile offre la possibilità di sfruttare personaggi chiusi, di mente ristretta e che hanno segreti nascosti. Ambienti larghi e che offrono numerose suggestioni.  Questa terza stagione ritorna all’ambientazione canonica della prima stagione.

Rispetto alla prima stagione, questa terza storia offre una prospettiva intima, famigliare e che, in un certo senso, va al di là della risoluzione del crimine. Lo scopo principale non è venire a capo del mistero ma scoprire, seguendo la mente nebulosa di Wayne, la sua vita. Il suo crescere ed invecchiare. Di come l’evento criminoso ha segnato per sempre la sua storia personale.  L’indagine investigativa è solo un pretesto per raccontare un dramma interiore molto intenso.  Il tutto con una triplice arco narrativo con una forte dilatazione temporale. Il ritmo lento è la rappresentazione della mente del protagonista che bloccato dalla sua malattia, non riesce ad essere lucido e aprire in modo ampio il proprio sguardo, ricostruendo in maniera cronologica il fatto. Noi spettatori seguito la storia attraverso di lui che filtra i ricordi e perciò la dilatazione temporale è congrua all’emotività psico-fisica del personaggio principale. Attraverso un’ottima scrittura, Pizzolatto fornisce all’interno della diegesi tutti i “dispositivi” necessario affinché il protagonista riesca a compire il proprio destino: ovvero risolvere il crimine a porre fine ai suoi demoni personali. Gli stratagemmi narrativi sono ovviamente la moglie, che funge quasi da spirito guida e indirizza il marito lungo la via, e il libro che scrisse dopo la prima indagine. Il volume, stranamente mai letto da Wayne, è la guida per scoprire il mistero. Sottotraccia racchiude tutta la risoluzione. Inoltre, lungo la sua ricostruzione della vicenda, all’interno della storia vengono inseriti degli espedienti per aiutare il protagonista come l’intervista con una giornalista. Quest’ultimo è un elemento che non trova una vera e propria risoluzione nel finale e perciò è da valutare come mero stratagemma narrativo. 

Se la prima stagione raccontava la pedofilia, la corruzione della polizia e la società ostile, questa terza parte si concentra perlopiù sull’umanità dei due detective e sulle condizioni della psiche umana. Ci sono tematiche complesse e articolate come il razzismo, l’omosessualità e la tragedia ma vengono esplorati nel loro contorno e non offrono nessun elemento di denuncia. La società è ancora ostile perché è così il mondo in cui viviamo. C’è un forte cinismo nello show e la corruzione è già un archetipo preponderante all’interno della storia. Anzi, molti elementi “di denuncia” vengono sfruttati dalla narrazione stessa per sviare dal fulcro centrale e dilatare maggiormente la storia. Argomenti di contorno che rafforzano i personaggi e instillano maggiormente il dubbio verso di essi per evidenziare la complessità narrativa. Si parte dal principio che tutti hanno qualcosa da nascondere e nessuno dice mai la verità. Il tutto viene fatto anche per mantenere un contatto con la realtà dove non c’è il bianco e nero ma scale di grigi e mezze verità.

In True Detective 3, la narrazione viene costruita attraverso questi presupposti. Uno sviluppo concentrico che più si allontana dalla verità e dal nocciolo centrale e più si avvicina alla risoluzione della vicenda. Sono i dettagli che fanno la differenza. Per questo la terza stagione è un ottimo prodotto. La storia intrattiene con degli stratagemmi, a volte banali, ma funzionali al racconto della propria storia che non è la risoluzione del crimine. Puntata dopo puntata emergono dettagli piccoli ma significativi. Frammenti cosi come frammentati sono i ricordi di Wayne. Le storie di True Detective non sono dei veri crime story, nel senso che la vera indagine messa in risalto è l’esplorazione dell’animo tormentato delle persone. In un certo senso è un progetto antropologico alla scoperta dell’indole umana.

Quindi, seppur non del tutto coerente e originale, la terza stagione di True Detective si dimostra un ottimo prodotto. Intrattiene ed è scritta in maniera brillante con idee interessanti e con un personaggio esplorato in modo esaustivo che è il fulcro dell’intera storia. Un progetto seriale limitato in grado di raccontare molteplici sfaccettature dell’animo umano e che al proprio interno, come se fosse una sorta di matrioska, racchiude molteplici storie. C’è tanto in questa terza stagione e l’unico neo è la troppa dilatazione e il ritmo lento e compassato delle prime puntante. Seppur volutamente dindonante e con un arco a spirale dove i dettagli fanno la differenza, lo show ha la necessità di avere la massima attenzione durante tutta la visione. Per questo motivo, non è un prodotto che può piacere a tutti e che non riesce a svincolarsi da protagonisti maschili, rendendo lo show, per certi versi, troppo mascolino e “gonfiato dal testosterone”.   

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