Christian Rivers, collaboratore di lunga data di Peter Jackson nel ruolo di storyboard artist, esordisce alla regia con Macchine mortali, tratto dal romanzo omonimo di Philip Reeve e scritto e prodotto, tra gli altri, dallo stesso Jackson. Ambientato in un mondo post apocalittico che vede intere città semoventi farsi battaglia tra la desolazione, il film racconta della lotta di Hester (Hera Hilmar) e Tom (Robert Sheehan) contro i piani malefici di Thaddeus Valentine (Hugo Weaving). Un’alta sfera della Londra motorizzata e predatrice, Valentine progetta la conquista del potere sulla città e sul mondo intero utilizzando tecnologie del passato appena riscoperte.

Al di là dell’idea di base senz’altro bizzarra, il film è tra le opere più derivative che si possano trovare nel panorama cinematografico degli ultimi anni. Oltre ad una sceneggiatura fin troppo colma di frasi di repertorio, c’è un problema alla base. Anni di film di avventura, fantascienza e fantasy ormai hanno inevitabilmente formato anche lo spettatore più casuale, impedendogli quindi di rimanere più sorpreso della media durante lo svolgersi degli eventi. La stessa idea di base in realtà rimanda a Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki, ma l’enormità di differenze tra i due film permette di non dare troppo peso a questa somiglianza. Una serie di film dai quali Macchine mortali prende palese ispirazione è quella di Star Wars, dalla quale vengono ripresi alcuni importantissimi elementi di trama, con particolare riferimento alla prima trilogia. La stessa struttura narrativa riprende moltissimo da quelle dei primi film della saga fantasy sci-fi. I primi minuti di film regalano poi una citazione diretta a un notissimo film d’animazione, che oltre a divertire riesce a far riflettere sulle numerose imprecisioni che può commettere la storiografia.

La poca ispirazione di Macchine mortali però non è necessariamente un male. Un’attività interessante da svolgere durante la visione può essere la “caccia al simbolo”; il film infatti non si limita a rimandare ad altri film molto più conosciuti, ma anche ad altre figure e concetti ben radicati nell’immaginario comune. Basti guardare la fazione di umani che si oppone alla motorizzazione delle città. Anna Fang (Jihae), tra i più importanti leader del gruppo, combina un aspetto e una performance degni di Matrix (occhiali da sole, carattere serissimo ma con un velo di ironia, potenza estrema in battaglia) con un cappotto rosso ed un aereo personale di un rosso ancora più intenso. Una vera icona rivoluzionaria postmoderna che, pur non avendo chissà quale spessore come personaggio, proprio a causa della sua iconicità, riesce comunque a combinare aspetti classici e moderni, di realtà e di finzione, con la totale consapevolezza dei suoi creatori.

Anche il personaggio di Shrike (Stephen Lang) desta interesse. Ultimo superstite di un gruppo di uomini-macchina costruiti a partire da umani deceduti, viene sguinzagliato da Valentine contro Hester e Tom e li insegue in capo al mondo in cerca di vendetta per motivi che verranno chiariti solo in seguito. In questa inarrestabile creatura, che non può non far pensare ai Terminator di James Cameron, convergono diversi stereotipi della narrazione: zombie e cyborg naturalmente, ma anche vendicatore, loner e addirittura genitore affettuoso. La combinazione di tutti questi aspetti ormai codificati riesce però a costruire un personaggio comunque in grado di funzionare alla perfezione e capace di trasmettere una carica emozionale affatto scontata per un personaggio di questo tipo.

Il sottotesto storico e sociopolitico è un altro ottimo punto a favore di Macchine mortali. L’idea che la città di Londra sia il nemico imperialista si sposa benissimo con il fatto che il regista e produttore siano entrambi originari di un’ex colonia britannica come la Nuova Zelanda. La vena colonizzatrice del Regno Unito viene fatta rivivere in una Londra aggressiva e quasi regredita all’età vittoriana, periodo di massima espansione dell’Impero Britannico, rendendo evidente come per gli autori l’indole conquistatrice del popolo inglese sia un aspetto indissolubile della sua personalità.

A questa tematica si collega direttamente l’attacco alla società nella quale al momento viviamo, destinata ad autodistruggersi con l’aumentare dell’avidità e dell’ignoranza. Raccontando l’apocalisse, Tom fa riferimento al fatto che l’umanità avesse col tempo disimparato a leggere e scrivere, rispecchiando il pensiero che diversi nostri contemporanei stanno portando avanti in questo periodo; il tasso di analfabetismo funzionale attualmente in aumento lascia campo libero al pessimismo di molti. Per quanto la critica possa forse risultare semplicistica e un filo qualunquista, la sceneggiatura compensa poco dopo specificando come in realtà l’umanità non sia mai cambiata davvero nei suoi aspetti negativi: semplicemente, al tempo dell’apocalisse aveva armi più potenti a disposizione.

Se quindi il film da un lato soffre di una costruzione troppo poco originale, in tutti i sensi visti finora, dall’altro presenta varie caratteristiche lodevoli che aiutano a distinguerlo nel panorama mainstream recente. Un interessante blockbuster dunque, purtroppo destinato al fallimento commerciale per due motivi: lo scoraggiamento di molti spettatori a causa delle idee di base, e il passaparola negativo di chi lo avrà visto cogliendone solo gli aspetti più derivativi e “sciocchi”. Peccato.

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