Col nulla, lo stilista britannico Alexander McQueen riusciva a confezionare abiti in grado di dettare la moda. La sua intensa quanto tormentata vita ci viene raccontata nel documentario diretto di recente da Ian Bonhôte e Peter Ettedgui e chiamato semplicemente McQueen. La semplicità del titolo rispecchia quelli che erano i materiali che lo stilista utilizzava agli inizi della sua carriera, e che continuò ad usare anche una volta raggiunta la fama. A tale semplicità corrispondevano però un carattere e una personalità ben più complessi, plasmati da una grande quantità di difficoltà affrontate durante la sua breve vita, che egli stesso scelse di terminare suicidandosi all’età di quarant’anni.

Il film segue la vita di McQueen dagli inizi della sua carriera fino alla commemorazione da parte dei cari in seguito al suo suicidio. La serie di filmati di repertorio e interviste è divisa in atti, espediente dalla giusta teatralità per una vita sopra le righe e in mezzo ai riflettori come quella del suo protagonista. Molte sequenze sono intervallate da brevi scene che ci mostrano, anche tramite CGI, oggetti che si ricollegano al lavoro di McQueen. La potenza che trasmettono tali immagini ben si adatta ai soggetti che ispiravano lo stilista per le sue creazioni.

La figura che ci viene mostrata è infatti quella di un artista affascinato da molteplici forme di bellezza, dagli utensili di uso comune, ad animali possenti come i leoni e alla mitologia, con il mito degli Argonauti. Talmente affascinato da iniziare il proprio cammino agendo nell’illegalità, in quanto gli oggetti sui quali lavorava venivano pagati con il sussidio di disoccupazione, al quale non avrebbe avuto diritto proprio a causa dell’attività che svolgeva.

L’altro lato di McQueen è quello di un uomo tormentato, soprattutto negli ultimi anni della sua vita. La morte della madre Joyce diede il colpo di grazia ad Alexander, che pochi giorni dopo decise di compiere il gesto estremo. La figura che resta ai posteri è quella di un artista sempre in grado di battersi per le sue passioni, anche con mezzi irrisori a disposizione, e di un uomo talmente ricco d’amore nei confronti di ciò a cui teneva, da arrivare a morirne. Grazie all’accuratezza nella realizzazione, alle generose parole di chi lo aveva conosciuto, alla bellezza delle immagini di transizione già menzionate in precedenza, e alle note di un compositore d’eccezione quale Michael Nyman, il film riesce a rendergli giustizia.

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