La nascita di due agnellini, ragazze bellissime ballare in discoteca, un madre che allatta il figlio: Amin, il protagonista del film, giovane franco-tunisino, è attratto dai corpi. Come fossero qualcosa di sacro, però, se ne tiene sempre a debita distanza. Li cattura con la sua macchina fotografica, li racconta nelle sue sceneggiature. Nonostante le numerose proposte delle ragazze nel paese, Amin preferisce guardare. L’inizio del film è simbolico: tornato nel piccolo paese di pescatori dove è nato, nel sud della Francia, il ragazzo si accorge che il motorino di suo cugino Tony è parcheggiato di fronte alla casa della loro amica comune, Ophélie. Si affaccia alla finestra e coglie i due in preda alla passione. Kechiche, voyeur insieme ad Amin e insieme a noi spettatori, ci mostra tutto, con pochi pudori e così farà per tutto la durata dell’opera.

Mektoub, My Love: Canto Uno, nonostante le sue tre ore, è un film esaltante: esalta la fisicità e l’attrazione, il corpo e le sue figure, i suoi confini e i suoi movimenti, ed è esaltato nel farlo, nelle sue potenti luci estive e nei colori cittadini artificiali, nei vestiti troppo stretti e nella camera che balla sotto la direzione dell’italiano Graziaplena. È più che lecito parlare di un linguaggio del corpo, dato che in Mektoub le parole non hanno niente da dire: Kechiche ha lasciato grande libertà nei dialoghi e nei movimenti ai suoi attori ed il risultato è impressionante nella sua naturalezza, tra gossip da spiaggia e frasi da rimorchio, senza mai rendere la recitazione posticcia (non per niente, ci sono voluti sette mesi di riprese e per gli attori anche tre mesi di esercitazione). Inevitabilmente il contenuto dei discorsi diventa il gioco di sguardi, di spintine, di sorrisi e imbarazzi.

Kechiche è conscio di aver girato un film “scomodo”: “Mektoub, My Love: canto uno  è anarchico, mira a spezzare le catene della gerarchia. Il cinema francese è ostile ai miei discorsi sulla libertà, e questa ha posto più di un ostacolo all’esercizio della mia professione”. Se da un lato è comprensibile domandarsi se un pubblico femminile eterosessuale possa uscire dal cinema soddisfatto, allo stesso tempo, Kechiche rivendica la libertà di mostrare un mondo che esiste oggi come esisteva negli anni Novanta, nei quali il film è ambientato. È la stagione estiva degli adolescenti, il momento in cui si cresce, il momento in cui si scopre l’istinto e la voglia, forte al punto da spingere a superare barriere d’età e di genere (è interessante notare come Call Me by Your Name, film dalle molte affinità, tra la libido e le estati passate, sia uscito nelle sale mentre Mektoub, My Love veniva presentato a Venezia).

Nelle interviste che ha rilasciato, Kechiche è sembrato voler indirizzare l’analisi del suo film verso un’indagine sociale, soffermandosi sul ruolo degli anni Novanta, nei quali il film è ambientato, e sullo status politico che, loro malgrado, le comunità multiculturali francesi hanno acquisito. Se scatenare questa riflessione era l’obiettivo del regista, esso non è stato raggiunto, ma sarà d’obbligo rivalutare queste riflessioni all’uscita del Canto due, che Kechiche ha già girato. Rimangono i discorsi, a nostro avviso, più che validi, sulla gioventù e sul sesso, sull’istinto e sulla vita che cerca di diffondersi, raccontata come un’onda luminosa.

Il film comincia dei flare che sbattono sulla macchina da presa e con due citazioni sulla luce, una dal Vangelo e una dal Corano. E la luce accompagnerà l’estate di Amin, accecante sul sudore e sulla sabbia, colorata e caotica in discoteca, flebile e calante nel momento in cui il protagonista cerca di immortalare con la sua macchinetta la nascita di due agnellini nella fattoria di Ophélie, con Bach in sottofondo. Il sacro e il profano non hanno più confine in Mektoub, My Love, sono la stessa cosa, sono la luminosa presenza corporea che ci vincola alla terra e ci concede la libertà di essere. Dice Kechiche: “Questo film vuole essere un inno alla vita e alla luce, un’ode alla bellezza. Questa luce è la libertà di pensiero, la libertà che io rivendico”.

Federico Cadalanu

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